1991 TESTIMONIANZE SPARSE (Scattered Interviews -Selected drafts from the 80's) TALES Invito alla Lettura Festival ROMA
2nd Prize Stampa Alternativa Press Competition: Scritti nel Cassetto (Writings in the Drawer)
1. IL VIAGGIATORE
Gruscapalrot,
mago nano del Gott,
avevi sette granchi
che facevano frog
Gruscapalrot,
il primo granchio ha trovato nel mare la madreperla regina, il secondo ha catturato per te la pulce ballerina, il terzo ha seminato tre campi d'ortica, il quarto la miete e la fila, il quinto ha tessuto tappeti fatati, il sesto custodisce il tesoro dei nani, il settimo comanda gli uccelli al tuo servizio.
Ho attraversato il Fiume, dato che ti cercavo, ma non ho trovato che deserto.
Ho attraversato il deserto, dato che ti cercavo, ma ho incontrato la montagna.
A lei che è molto anziana e saggia ho chiesto di te e lei mi ha diretto ad est, dove avrei incontrato la foresta.
Ho incontrato la foresta e non solo lei, ma anche i suoi abitanti, così ho conosciuto il lupo (e non mi fu amico), ho giocato a carte con gli elfi, ho discusso con una vecchia maga solitaria e fu lei a dirmi che abitavi nel nord, prima del ghiaccio, nelle terre brulle.
Ho raggiunto le terre brulle e in lontananza si vedeva il mare, così mi sono aggrappato al vento e ho raggiunto i tuoi granchi.
Il primo mi è venuto incontro senza parole, ma io ho capito che tu eri lontano, il secondo lo seguiva e aveva per me un vassoio di alghe.
Ho mangiato per tre giorni quanto basta per non aver più fame, alla fine il terzo e il quarto granchio mi hanno offerto il tappeto di ortiche, che da solo sapeva che dovevo arrivare da te. Così il quinto mi ha dato una penna il sesto una pergamena il settimo l'inchiostro nero e un saluto.
Per questo ora che ti ho raggiunto ho potuto portarti un regalo: il mio taccuino di viaggio e un po' di stanchezza.
2. INGRANAGGI
Grandinava. Questo è stato un motivo valido per non inseguire Gedeone.
Non che Gedeone fosse più veloce di Noi. Tutt'altro.
Inoltre Noi avevamo anche le ruote, mentre lui era solo scivoloso; e Noi avevamo anche un arpione con cui avremmo potuto facilmente toccarlo.
Ma aveva preso a grandinare, e quel ghiaccio lì in mezzo, che faceva tutte palline, ci stava così male e rendeva tutto tutto così complicato, che, presi da un gran mal di testa, optammo per la ritirata.
Fu allora, mentre tutte le nostre ruote facevano inversione, che vidi Gedeone, tutto sorriso, che scivolava ancora di più su quel ghiaccio rotondo, felice e beato.
Iniziai a farmi verde di rabbia, ma tanto verde che a tutti parve troppo verde e così si decise di ingranare la quarta per non rischiare di richiamare l'attenzione di Gedeone con quel colore.
Solo che il verde fece stridere la mia ruota e tutti cigolammo involontariamente e Gedeone, che scorreva fino ad allora ignaro, sentì il cigolio e si voltò; pur continuando a pattinarsi addosso, vide il mio verde, si stupì, si stupì tanto che iniziò a sciogliersi, cosicché (non l'avesse mai fatto!) ci sommerse con la sua fiumana liqueforme e ci arrugginì tutti i legamenti.
I miei non riuscivo più a guardarli dalla vergogna, ma più ci pensavo più diventavo rosso, tanto rosso che alla fine, tra la vergogna e il liquame di Gedeone, eravamo diventati un monte di ruggine.
E' in queste condizioni che racconto mentre i miei fanno battutine di dissenso per la situazione in cui li ho ficcati e la mia vita oggi é un cumulo di rimorsi che, purtroppo, non riuscirò a superare facilmente.
3. SEMAFORO
Sotto la strada, oltre la ghiaia che tiene l'asfalto della città. Sotto le fondamenta dei grattacieli, più in profondità della metropolitana, c'è una grande centrale con un omino che corre.
E' la centrale più grossa che si possa pensare e così piena di luci e bottoni da non capirci più niente solo ad entrarci.
Solo lui é all'altezza del compito e corre in continuazione su e giù a spingere pulsanti sulle pareti, sui ripiani, su aggeggi elettronici infernali.
Sulla superficie, la vita prosegue in maniera regolare:
Quando Teobaldo con la sua balilla rossa arriva all'incrocio con via dei Melograni, c'é un semaforo rosso che lo avverte che Paoletta e Gigio stanno attraversando la strada. Nello stesso istante, Paoletta e Gigio, mentre si trovano ad attraversare via dei Melograni sanno di poterlo fare con fiducia perché un segnale verde permette loro di muoversi.
Nel senso inverso c'é Rebecca Maria che prende gioiosamente la prima a sinistra, mentre sul bordo di questa stessa strada Annette e Giulio Cesare aspettano con impazienza di poter attraversare.
Loro non sanno che: se Teobaldo con la sua balilla rossa non ha messo sotto Paoletta e Gigio e non é andato a scontrare contro Rebecca Maria che gli tagliava la strada mentre tutti quanti finivano col mettere sotto Annette e Giulio Cesare che attraversavano indifferenti... se tutto questo non é accaduto e tante cose ancora non sono accadute, é stato solo merito suo: l'omino della centrale dei bottoni, che dalla mattina alla sera di ogni giorno dell'anno percorre senza sosta alcuna un tragitto preciso e determinato, per illuminare un rosso o un giallo o un verde, che é in sintonia con quello che lo attraversa e così via nell'intreccio di rete e maglie fittissime creato dalla metropoli.
Immaginiamoci noi, comuni mortali, a correre così irrimediabilmente come indemoniati per spingere bottoni in una stanza fatta di pulsanti luminosi e levette.
Neanche tre ore di fila resisteremmo.
Ecco perché credo che lui non sia un essere umano vero e proprio.
Io lì sotto non sono mai scesa, anche perché dopo che hanno costruito la centrale e ce lo mandarono a lavorare, neanche gli altri sono mai scesi giù a fargli compagnia.
Comunque da allora lui é sempre lì. Sennò ce ne saremmo accorti, perchè sarebbe scattato il verde contemporaneamente in più incroci e tutti sarebbero ora ammonticchiati come lenticchie, oppure il rosso che é scattato alle 13,20 sarebbe rimasto tale fino ad ora provocando una (non so quanto grande) fila interminabile piena di clacson rumorosi e parolacce.
Certamente sembra che qualcosa di deteriore si stia propagando e spesso i meccanismi infallibili controllati dal nostro uomo si rivelano fallaci.
Credo che sia la vecchiaia e che lui abbia intenzione di andarsene in pensione. Tanto più che ultimamente hanno scoperto dei marchingegni che, messi lì fra i bottoni, possono fare con una piccola carica, tutto il lavoro del nostro omino.
Allora succederà che ce lo ritroveremo al mare steso sulla sdraio vicino a noi che gioca alle parole crociate, senza paure e angosce come in quegli anni in cui i bottoni colorati lo riempivano di responsabilità nei confronti del mondo urbano e potrà finalmente sentirsi normale come tutti e mangiarsi il suo gelato al pistacchio, limone e fragola.
4. DISTESA
Una fila interminabile di bruchi verdi strisciava da Gallipoli a Marrakesh.
Io tagliavo loro la strada in un punto non ben definito, ma loro mi passavano sopra senza indugiare e senza chiedere mai "permesso" o "mi scusi".
D'altra parte io ero lì, immobile, tutta d'un pezzo, (o meglio, non più così d'un pezzo come una volta) e l'unica alternativa che avrebbero avuto, sarebbe stata quella di circumnavigarmi, ma io stessa l'avrei ritenuta una follia.
In effetti mi sono resa conto, col passare del tempo, di essere cresciuta talmente da non avere più chiara la conoscenza degli spazi che occupo. Non so più neppure di che materia si compongano le mie membra.
Da giovane, ad esempio, dovevano essere tipo gelatina, ma a quel tempo, sicuramente, non erano più così.
Lo sentivo anche dalla mia consistenza. Doveva essere qualcosa di estremamente opposto alla gelatina, ma purtroppo non riuscivo a concretizzare questa mia presenza.
Comunque era da un lungo periodo che i bruchi verdi pellegrinavano da Gallipoli a Marrakesh e passavano su di me senza tregua.
Per me non ci sarebbe stato alcun problema di sorta nel permettere un attraversamento da parte di chicchessia; l'unico problema reale era che, da qualche tempo, avevo iniziato a soffrire atrocemente il solletico.
All'inizio non era proprio così atroce: iniziai dapprima ad essere sensibile alle loro zampettine minute e questo mi provocava, solo ogni tanto, piccoli brividii di fastidio subito controllabili.
Lentamente, però, questa sensibilità é aumentata, fin quando il camminare continuo dei bruchi verdi stimolò così tanto i miei sensi al riso che ero costretta continuamente ad agitarmi per non morire soffocata.
Il guaio era, inoltre, che sembrava non finissero mai di passare.
Mi accorgevo che questi ultimi pellegrini dovevano sentirsi un po' traumatizzati da questo mio agitarmi e ridere a crepapelle, ma, d'altra parte, il continuo zampettare aveva creato un solco tanto profondo sulla mia superficie, che ormai ero a contatto diretto col senso e mi costringeva a far procedere tutti a scosse e balzelloni.
Non ho mai sofferto tanto e non mi sono mai divertita tanto come in quel periodo.
A tratti avevo la certezza di dover soccombere da un momento all'altro.
In altri momenti mi lasciavo andare di gusto ed allora era come se tutto il circostante fosse inverosimile, ed io ero felice felice e ridevo ridevo con gioia, come nessuno, credo, potrà mai comprendere.
Questi periodi gioiosi, fortunatamente, riuscivano a durare per mesi e gli attimi di panico erano, invece, solo istanti, come quando si dondola leggeri sull'altalena e all'improvviso la vertigine fa pensare alla caduta e allora si rallenta, ma solo per poi ridarsi lo slancio e cercare ancora una volta di toccare i rami degli alberi.
Così proseguì per infiniti spazi di tempo, fin quando un bel giorno quest'avventura finì di colpo.
L'unico modo in cui poteva terminare era di colpo: finiti i bruchi verdi, finita la storia. Ma per me fu una sensazione talmente amara, quella che mi costringeva a ritornare alla realtà banale e vuota della mia pura essenza, che non mi ripresi più.
Ogni tanto le foglie degli alberi cadevano sul solco tracciato dai bruchi verdi ed io facevo finta di sentire lo stesso divertimento di allora; ma finiva tutto lì ed era solo una delusione ulteriore.
Non che non passasse mai nessuno di là, ma piano piano i sensi si rifiutarono di essere percettivi.
Ero stata troppo felice e troppo a lungo per potermi accontentare di sporadiche frazioni di allegria in un continuo, grigio dormiveglia forzato.
Così, spinta da una forza interiore, iniziai a cambiare materia e ad indurire il mio cuore, ma tanto, ma tanto che credo di essere diventata una montagna.
So che se qualcuno avesse detto del mio futuro una cosa simile gli avrei detto che si sbagliava, ma il tempo, in fondo, é fatto per farti capire cose nuove, così io, ora, così diversa, aspetto che lo stesso tempo consumi la materia e che io possa dimenticare.
5. COLLEZIOMANIA
Abbiamo fatto incetta di Concetta, anche se non ci serviva, solo perché ci ha preso così.
Non c'é sembrata molto consenziente: continuava a borbottare di certe storie romane e di ratti delle sabine.
Insomma non era l'azione migliore che si aspettava da noi.
Dopo questo primo tentativo ci è sembrato così divertente fare incetta di Concetta, che non ci siamo fermati alla sola Concetta prima, la lei conosciuta dagli albori della nostra infanzia.
E' così che nacque la nostra mania di tipo inglese - la colleziomania - portata ad uno stadio talmente paradossale che, se ci penso, mi sento un malato, solo che non ci penso.
Alla prima Concetta, dicevo, l'amica grassoccia della mia infanzia, si è aggiunta, quindi, la comare magra della strada parallela.
Anche lei mi è parsa poco consenziente, solo che é un po' tocca e, dato che per lei stare lì o stare qua non fa differenza, non si é lamentata.
Girando per il paese, abbiamo accompagnato nella "stanza da collezione" anche Concetta Saltelli, la cugina della suocera di Ignazio.
E' stato lui a ricordarmi di lei, e l'acquisto é stato facile, dato che in casa sua non la sopportava più nessuno e noi non è proprio detto che si debba sopportare qualcuno.
Sul carretto discuteva e questionava come un avvocato, ma noi, prevenuti, pensavamo ai fatti nostri e cioè che la nostra collezione aveva ora il pezzo numero tre.
Concetta Pallottini, invece, " la regina", fu per noi motivo di un certo imbarazzo.
Sarebbe certamente stato un singolarissimo esemplare della nostra collezione, ma, dato il personaggio, non era di facile cattura.
Se ne stava nel suo bunker blindato ad attenderci con la lupara, così come attendeva tutti i suoi ospiti, col solo particolare che ci conosceva talmente che non avrebbe mai e poi mai fatto entrare per nessun motivo al mondo nessuno di noi.
E' stato sempre Ignazio (il furbastro!) a gabbarla come una polla, e pregando e bestemmiando contro di noi, tradendoci in ogni parte del corpo e dello spirito, mentendo spudoratamente, le giurò e spergiurò ogni cosa più atroce nei nostri confronti, da mattina a sera, fin quando Concetta non si convinse profondamente che egli avesse veramente qualcosa di molto triste da raccontarle, riguardo un qualche torto subito dalla nostra cricca.
Così, complicemente, gli aprì, ma non fece in tempo a dirgli "cucù", che lui le diede una mattonata in testa e se la portò via tutto contento.
In noi, nel compiere simili atti, non esisteva ombra di libidine. Era pura mania.
E' per questo che in questi pochi attimi di lucidità mi sembro folle; solo che questi attimi sono effettivamente pochi e di poco valore.
Siamo arrivati, in quattro mesi, a collezionare diciassette Concette.
Tutte chiuse dentro una grande stanza, dove parlavano, si lamentavano, gridavano, piangevano, studiavano piani d'evasione, o ridevano a crepapelle.
La cosa più divertente era spiarle conversare e cercare di capire come potessero distinguersi a vicenda.
Solo che dopo un po' iniziarono a coalizzarsi in massa.
Smisero di chiamarsi "Concetta" a vicenda, ma si chiamarono per cognome, così che Concette erano oramai ben poco. Poi, dato che in noi non esisteva alcun tentativo effettivo di coercizione, si accorsero che bastava dare qualche spallata alla porta per buttarla giù e andarsene.
Così hanno fatto e nessuno della nostra cricca é riuscito in tempo a preparare una macchinetta e a scattare qualche foto da repertorio di questa collezione da miliardari.
Fattostà, che siamo ancora qui, in questo monocamera in affitto, che contiamo i ceci che ci spettano a testa, senza alcuna speranza vana di gloria.
6. PARTE DELLO SPAZIO
Non crediate che questa mia realtà non sia vera:
Effettivamente io mi trovo qui a rappresentare la mia vita su di un foglio e tutto ciò che é di me é questo foglio stesso.
Non mi é mai successo di essere altro che nulla.
Non so qual é la sensazione che determina l'essere qualcosa. Per questo, anche, spero di poter scrivere a lungo, in modo che la mia "vita", così come si intende oggigiorno (in questa maniera così materiale, fisica, atea, precaria), possa dirsi vissuta per un po'.
Non mi ha mai creato problemi questo mio essere pura essenza.
In fondo credo di potermi ritenere soddisfatto.
Tutto ciò che concerne la vita su questa terra mi crea solo curiosità, mai invidia.
Vedo che voi provate molto ribrezzo al pensiero di trovarvi in una situazione analoga alla mia. Pensate che se doveste trovarmi nel mio stato vi sareste giocati tutte le vostre carte e non avreste altre possibilità.
Credete che l'esistenza sia la situazione ideale per potersi determinare, ma io sento di avere comunque molte certezze, nonostante nessuno mi abbia mai considerato, e nessuno abbia preso in considerazione le mie opinioni.
Il fatto é che non mi curo molto di voi, o meglio, mi curo di voi come del resto, e tutto é molto più vasto di quanto voi stessi crediate.
Per esempio, oggi mi trovo qui, ma questo é la prima volta che mi capita da sempre. Sono contento di essere qui, perché è un'esperienza divertente materializzarsi in un linguaggio specifico, con un inchiostro e una macchina da scrivere che a fine rigo fa "bip!" e si ferma. E poi "trattatattà" finché non é di nuovo "bip!".
Io sono contento, tutto ciò mi é facile, anche se nuovo, ma domani sarò già altrove e sarà sempre una novità. Potrà essere ovunque ma non mi sconcerterò mai.
Non so se potreste sempre dirvi contenti di questa vostra storia.
Specialmente perché anche voi prima eravate parte dell'universo come me e tornerete ad esserlo.
Questo relativo periodo di esistenza sarà per voi solo un'illusione ed é per questo che ve la prendete così pesantemente.
E oltre tutto vi credete di avere in mano tanti strumenti, quando, invece, ne avete solo persi tanti.
Io credo che non dobbiate montarvi la testa così tanto, dato che ogni esperienza vale per quello che é e non c'é mai stato nessuno che vi ha detto che capitando qui, invece che là, ci sarebbe stata differenza.
Credo, per esempio, che questo spazio nella vostra esistenza, per me, sia già sufficiente. Ho già scoperto molto e difficilmente mi innamoro di qualcosa.
Che altro avrei da fare qua sopra? Il tempo é eterno, ma corre sempre più in fretta di tutti...
7. FORME
Il nostro rifugio era a due passi dal mare.
Ci andavamo per chiuderci dentro e vedere la luce del sole filtrare attraverso la griglia sul soffitto, dall'alba al tramonto, e cambiare gradualmente le ombre, i riflessi, i brillii delle cose attorno a noi.
La stanza era bianca, i solidi che la componevano, delle forme più strane; erano bianchi anche loro e tutto si riempiva della luce penetrante attraverso la griglia.
Noi pure, così bianchi e immobili, sparsi al centro della sala, o confusi sulle pareti, tra qualche solido, o attaccati al soffitto, restavamo ad amare le nostre ombre ed il percorso che esse facevano, fino al tramonto.
Non c'era altro. Solo che una volta mi trovai da solo a confondermi tra le cose dopo il calare del sole.
Tutti, quella sera, lentamente, si erano dileguati nell'ombra. E' difficile e raro, infatti, che ci si ritrovi anche dopo il tramonto, quando le forme si fanno meno nette ed i corpi non sono più definiti.
Allora la notte fece tutto un altro gioco a me sconosciuto col quale scoprii cose nuove.
Restai al mio posto imparando che esiste questa nuova fase dell'esistenza, la notte, che si inventa ogni cosa in modo diverso e contrario.
Quella sera la luna era piena. Del suo percorso studiai ogni variante minima, come facevamo sempre per il sole ed essa non era molto diversa.
Quando raggiunse il centro del cielo tutto ciò che mi circondava prese nuovamente una dimensione concreta.
Il circostante non era bianco smagliante, però, ed i giochi non li creavano più le ombre ed il loro movimento graduale.
Questa luce leggera, radiale, ultraterrena, evidenziava dei particolari di cose, cambiando i suoi oggetti, mentre si spostava da oriente ad occidente.
Evidenziava dei particolari soltanto ed io non seguivo più i neri o i grigi delle ombre, ma i chiarori delle zone di luce.
Il resto era dolce oscurità.
All'alba gli altri apparirono allegramente nel rifugio e notai emozione nei loro atteggia-menti e sorpresa nel trovarmi già lì.
Trovai molto difficile farmi capire.
L'aurora era leggera e fresca quella mattina e fece dimenticare a tutti la mia azione sleale.
Il sole sorse più abbagliante che mai.
Le luci e le ombre si stagliavano nette nel progredire lento della giornata estiva.
Io ero, però, emozionato ed impaziente: desideravo spiegarmi ed invitare tutti alla permanenza notturna.
Ma non potevo comunicare durante la giornata, tutto era molto lontano da me.
Fu molto bello anche la seconda notte.
La materia, così fulgida e brillante, nella notte emanava un minimo, pallido lucore.
La nostra vista penetrava, poi, nelle gradazioni più fonde del buio, conoscendo nuove realtà ci portava ad essere diversi, a partecipare, nella sua totalità, del ciclo cosmico, a sapere tutto, in ogni senso, dell'esistenza e del nulla.
Senza accorgercene troppo, la nostra sostanza accettava di esistere nella sua totalità.
Non c'era più un porsi parziale e condizionato. Non c'era più una scelta.
Lentamente diventavamo materia, materia sempre più pesante, sempre più solida, sempre più immobile.
Le pulsazioni non servivano più. Tutto si fondeva nell'aria, se era sentimento.
Diventammo noi il nostro rifugio e il nostro rifugio entrò in noi.
Da allora le ombre e le luci ci percorrono insaziabili in ogni ora del giorno e della notte.
Il nostro delirio é cessato ed é morta la nostra chiara consapevolezza di essere.
Ci potrete trovare ancora lì, se volete, a due passi dal mare: siamo parte della roccia rugosa che profuma di sale.
8. DI FRONTE
Precipitava continuamente dinnanzi ai miei occhi, senza tregua.
La situazione era realmente strana: continuava a precipitare e mi restava sempre dinnanzi agli occhi.
Capivo che stava precipitando dalla posa che prendevano le sue membra, dalla corrente che lo tirava verso l'alto.
Ma era sempre lì e non si allontanava mai.
Catturò il mio sguardo dal primo momento che mi capitò davanti e da allora il mistero del suo cadere perpetuo restò un enigma da risolvere.
Con la vecchiaia mi sono reso conto che c'era solo un modo per chiarire questa stranezza: anche io, con lui, alla stessa velocità, stavo precipitando.
Ecco qui il punto: non mi sono mai osservato in vita mia, né, tanto meno, ho fatto caso a sensazioni o emozioni che riguardassero il mio corpo; asetticamente ho sempre guardato lui cascare giù e già era tanto che mi ponessi un problema riguardo il suo restar lì, sempre allo stesso punto, figuriamoci, quindi, se avrei posto qualche dubbio circa la mia esistenza, o su di un eventuale movimento del mio essere.
Il fatto che, invece, stessi precipitando, quando me ne resi conto, fu per me incredibile: mai avrei pensato di poter essere qualcosa, tanto più di poter porre al mio esistere un movimento definito.
Inoltre intorno a noi non c'era altro, per cui non potevo confermare all'esterno la sensazione di caduta:
non c'era niente di fermo che, mentre noi cadevamo, salisse ai nostri occhi fino a scomparire dalla vista.
Nel nulla assoluto, ad un certo punto non molto chiaro della mia esistenza, a causa di un individuo mai identificato che mi cadeva continuamente davanti allo sguardo, io mi sono sentito precipitare, ed ho capito che "quello" era precipitare.
Poi, non fu più a quel modo.
Continuando a guardarlo e vedendo come si contorceva in versacci e linguacce, cambiai opinione.
Non eravamo in continua caduta, ma da sempre stavamo fermi tutti e due.
E lui, bislacco e stupido, era fatto in quel modo tirato verso l'alto, (i capelli, le rughe del viso, i vestiti e i lacci delle scarpe, tutti andavano verso l'alto), ma la cosa era statica, non c'era un bel niente, infatti, che determinasse una caduta, come, ad esempio, un tonfo.
Non c'era mai stato un tonfo in tutta la nostra esistenza:
A meno che il nostro movimento non fosse circolare ed infinito, noi eravamo fermi.
Così, nell'ultima fase della mia vita tornai alla primaria sensazione di stabilità, seppure, anche questa, mai confermata da altro attorno a me.
Comunque lui era veramente molto noioso.
A parte che dopo un po' di tempo solo il fatto di avere qualcosa di specifico da vedere in continuazione mi dava sui nervi, c'era che lui, in particolare, sembrava facesse di tutto per risultare antipatico.
Non ho mai capito perché si comportasse in maniera tanto provocatoria, dato che, da quando stava là, c'ero solo io a potergli fare compagnia, eppure mi trattava malissimo.
Faceva versacci rumorosi in continuazione e poi boccacce e gesti volgari.
Ecco che dopo aver capito che nessuno dei due precipitava e che era probabilmente la sua idiozia a drizzargli tutte le cose verso l'alto, mi posi sullo stesso piano di battaglia e mi trasformai in tante punte, allargai lo spazio che mi apparteneva in modo da finirgli addosso, così che lui (finalmente lui) adesso soffriva.
Vederlo soffrire era così divertente che dal gran ridere le spine si afflosciavano e rientravano.
Facevo sforzi enormi per restare serio e diventare sempre più appuntito e tagliente.
Successe che una volta soffrì talmente che la sua faccia sembrava una maschera.
Cercavo di restare serio, ma lo sforzo fu così grande che scoppiai in una grande risata e centomila brandelli, miei e suoi, rotolarono nel nulla più infinito senza riuscire a ricomporsi mai più, anzi mescolandosi in un modo schifoso.
Mai avrei pensato di finire col mescolarmi con quello là.
Anche se da allora ci furono molte cose nello spazio, non riuscii mai più a capirci niente. Da allora infatti rotolo in continuazione e tutto il resto rotola con me.
9. PASSEGGIATA
Giacomo ha preso un mezzo, perché tutto intero non ce la faceva.
Allora Raul ha preso un altro mezzo.
Insieme ne hanno fatto uno intero, ma non basta.
"Se andiamo insieme a trovarli tutti e tre (Giacomo, Raul e l'intero) possiamo conoscerlo e farci spiegare il dilemma".
...Allora anche noi abbiamo preso un mezzo, ma per tutti e tre noialtri non bastava.
Era un mezzo piccolo.
Così uno di noi ne ha preso un altro.
Non é stato così facile, perché eravamo già in tre mentre loro erano due.
Invece noi, due con un mezzo e uno con l'altro (ed era Guglielmo, quello che si era avventurato da solo con un mezzo, che fu definito Tell per associazione) insomma si era un po' asimmetrici.
A me stava bene così, io sono un po' irregolare, ma Teresina decise che tutto era storto, non le piaceva niente, e mi piantò nel bel mezzo sul mezzo.
"O.K." dissi allora, perché erano già arrivati gli americani "Adesso va meglio". Riprendiamo il percorso.
Dato che é impossibile riprendere il percorso che é molto presuntuoso e preferisce proseguire da se', andiamo avanti ed alla fine raggiungiamo Raul e Giacomo ognuno col suo mezzo che insieme ne fa uno e scopriamo il segreto della Trinità.
10. COMPENETRAZIONE
L'ho aperto ed erano due; ne ho aperto uno ed eccone altri due.
Sono entrato nel più simpatico, ma non sapevo dove dirigermi, ché le direzioni erano tante, per non dire infinite.
Per questo ho deciso di andare da quella parte.
In effetti ho fatto bene: la vita non é stata proprio facile, ma varia.
Per esempio in quella zona camminavano tutti senza fretta e questo é un gran vantaggio.
Io, i primi tempi, correvo quasi, tanto loro erano lenti; poi ci siamo conosciuti ed ho capito.
Mangiavo talvolta l'uno talvolta l'altro. Certe volte mi mangiavano a me.
Non é sempre stata un'esperienza facile.
Comunque camminando in lungo e in largo mi sono trovato in un'altra direzione.
Per fortuna non mi é toccato scegliere.
Qui mi sono sparso, anche perché soffiava sempre senza tregua un vento portentoso, e ho allargato di gran lunga le mie dimensioni.
Quando ho incontrato lei eravamo molto più rigidi. Non so come é stato, fattostà che ci siamo conosciuti e ci piaceva percorrere il nostro spazio insieme.
Io, lo ripeto, in quel periodo ero un po' sparso, quindi ogni cosa percorreva tempi e spazi immensi prima di poter venire realizzata. Anche per questo la mia affinità con lei risultava piuttosto contraddetta.
Non che, dato che anche lei proveniva da quel vento, fosse così concreta.
Ci volle comunque un bel po' di tempo prima di entrare in sintonia, fin quando, cioè, potemmo finalmente scioglierci e sgocciolare.
Ci fondemmo insieme, trovandoci senza accorgercene, in quest'altro buco, poi tutto entrava in noi e noi in tutto (era un po' come la prima storia).
Quando fummo finalmente tutt'uno ci siamo incontrati nel più antipatico (quello dell'inizio) e abbiamo così capito di essere del tutto fuori.
Non per cattiveria, ma perché ce l'ha chiesto con insistenza, lo abbiamo lanciato lontano, così lontano che ce ne siamo dimenticati completamente.
Era un ricordo.
Oggi il futuro deve ancora arrivare, ed il passato è andato; viviamo felici e questo é l'importante.
Se vuoi anche tu danzar con me, non piangere, amor...
11. SCOORDINATO
Scegliendo dieci cinesi, partii e non tornai più lì.
Si ttu ddici chi l'ammorre hadda finirre, nun so ppoi che cossa vuoia ttu dda mme.
Cùcù. Pereperepé. Cuccuccuruccù.
Questo pensaie, el jorno dello travajo. Tanto me ardeva en cor e tant'anche smaniava lo scorbezzolo mio di fugare lontano quei liti natii, ovo io nacqi.
Allorchè:
1) Nel nulla più solo l'abbiamo riempito (eravamo in numero sufficiente per farlo, ed anche da solo, senza dieci cinesi, avrei saputo cavarmela)
2) Nel buio più nero l'abbiamo acceso, tanto che neanche un frammento di spazio si nascondeva nell'ombra
3) nel caos più confuso l'abbiamo ordinato, anche se alla fine si é dimenticato di allacciarsi le scarpe.
Poi abbiamo tirato a sorte ed é uscito il numero quattro, che ci mancava (mannaggia la malasorte). Il voto segreto ha eletto me.
Io, da quanto, forse, capite, sono poco coordinato, ma non importa, perché sono riuscito lo stesso a raccontare questa vicenda.
Non é un'esperienza di quelle emozionanti che capitano nei safari, nei telefilms polizieschi o in altre situazioni impegnative del genere, ma é pur sempre una storia.
12. BENESSERE
Com'era rotondo quel suono e come scivolava rotondo, mentre io ero là.
Non basta però, tutto era gorgo, tutto era morbido.
Immergendomi nel gioco dei suoni, scorrevo in questo universo fantastico di immagini e colori, senza poter frenare, senza saper capire.
Talvolta scontravo un rumore più pieno e questo esplodeva, ed io con lui, in caroselli di luce, libera o impaurita.
Volare e volare, come cadere e cadere.
Non c'era speranza di carpire o percepire moti: la sorpresa arrivava sempre ad un certo punto, senza preannuncio, ed il contraccolpo era sempre veloce, violento, graffiante.
Tutta rugosa, la mia superficie grattava contro la materia del suono in movimento continuo, producendo vibrazioni e luci e colori che a loro volta riempivano spazi vuoti, schiacciavano, centrifugavano quelli pieni.
Com'era che mi trovassi là, nel pieno della mia formazione, non so proprio come spiegarlo.
Eppure mio padre fu il silenzio e mia madre la tenebra.
Come esprimere tanta luce che mi cantava
dentro, come cantare tanta vita che mi brillava nell'animo...
Eppure era questo suono rotolante che traversava i miei vuoti a creare in me l'essenza, a fremere e a sussultare per il mio corpo, non io (eppure anch'io).
Ho capito, però, che non ha senso costruirsi motivi, perlustrare i perché sterili dell'esistenza.
Forse quest'occupazione può sembrare allettante a quanti, diversamente da me, si sono trovati, loro malgrado, a vivere una vita di patimenti e di orrori.
E' facile comprendere quanto possa risultare di cattivo gusto lo scherzo della vita per costoro: trovarsi in un mondo che li vuole diversi, eppure essere ormai vivi e dover soffrire anche nel tentare di tornare indietro.
Per esempio la Terra, palla così concreta e rigida.... brulicante di esseri, di vita, di morte... come può la Terra non porsi questo rabbioso interrogativo?
Così stupidamente gonfia di pullulante esistenza, come può non soffrire di essere viva?
Che pietà, che compassione... Ed io certo non sono capace di comprendere...
La musica continua, penetrante, rotonda e infinita, perpetua e incostante, mi riempie talmente da non lasciarmi mai altri spazi per le idee... ed io ne partecipo felice, proiettandomi passivamente nell'universo sensuale delle libertà moderate.
Non conosco il Tempo, tanto grave e profondo, generatore e distruttore di vita, inventore delle emozioni come il dolore...o la gioia...
Sono solo presente e rotolo, io, con questa musica che chiamo amore, vivente in me ed io in lei.
A dir la verità non saprei dire quali quantità, quali percentuali, compongano tutto questo, ma non serve, d'altra parte, "sapere" qualcosa.
Amo solamente trapassarle, le sensazioni, fin quando esistono, e poi, quando sono finite, le scordo, come se non fossero mai state.
Ho grosse difficoltà, per questo, a raccontare di momenti precisi o di piccole storie particolari... il Ricordo é figlio del Tempo e questa famiglia non é consona ai nostri luoghi.
Anche ciò che dico e che so é frutto solamente di un casuale scontro con una storia compatibile di vita concreta, la quale erroneamente attraversava la mia musica in tempi immemorabili.
Eppure, per questo, oggi sono differente: da allora la mia esistenza si è scissa in due: il prima e il dopo.
Non che mi serva granché, ma dato che mi trovo a raccontare, almeno ho qualcosa da dire in cui esiste un prima per cominciare ed un dopo con cui, adesso, finisco.
13. PRIGIONIERI
Gorgoglii stridii sciacquettii tonfi ronfi
gonfi di sudore cingolavamo sul selciato, come vecchie ruote pneumatiche.
Non si fermavano mai e a noi toccava seguirli a ruota, come fedeli seguaci
(così risultò poi sulla stampa dei giorni successivi, così sui libri di storia delle nuove generazioni).
Nessuno a chiederci - come va - nessuno a salutarci con la manina dal balcone. Nessun balcone.
Solo deserto.
In continuazione camminavamo sul selciato, con un gran sentimento represso.
Qualcosa, non so, forse catene, ci frenava dal mangiare i sampietrini.
Qualcos'altro, forse le loro armi puntate, ci impediva di dire fino in fondo ciò che pensavamo di quella storia.
Quando siamo arrivati sembrava di essere in un posto qualunque:
lo stesso selciato di prima e un gran vuoto difficilmente colmabile attorno e dentro di noi.
Così ci hanno deposti da un lato e sono corsi a fare merenda, dove non so, forse da Maria Pia che abita nella zona.
Sono spariti all'orizzonte in un baleno, e nel triplo del tempo sono ritornati, grossi almeno il doppio.
Comunque era tutto uno sciacquettare di sillabe, uno scomporsi inorganico, a cui dovevamo senza scampo assistere; e questa forse é stata la storia peggiore che sia capitata a noi, sempre così composti e globali.
Anche il sudore gelatinoso e l'aritmico ciondolare, o anche strisciare (che dico, essere trascinati via) e anche la fame.
A tutto ciò eravamo avvezzi ormai da tempo.
Durante tutta quest'era di patimenti ed atrocità nulla é mai stato il dolore fisico di fronte alla depravazione dello spirito o alla violenza mentale.
Ci toccò assistere a questo e ad altro ancora; molti tra noi soccombevano ed ho visto più volte qualcuno sgonfiarsi ed accasciarsi lentamente al suolo, in un nugolo di polvere, tra fischi en sibili. Sensazioni inenarrabili, spettacoli stravolgenti.
Spesso bucce sgonfie dei più sfortunati (o più fortunati, chissà) venivano ammonticchiate senza rispetto dentro fosse malsane, una sull'altra in una sorta di macabro rituale dell'insolenza. Altre volte incontravamo resti bruciati e maleodoranti sparsi lungo il nostro cammino.
Solo dopo tempi incalcolabili decisero di tornare sui propri passi.
I più ostili di noi erano stati bucati e li abbiamo visti tutti scoppiare come vesciche, in un'agonia allucinante senza avere la possibilità di fare niente. Senza neppure poter ribattere col terrore di seguire velocemente la loro sorte.
La mia fortuna è di essere un individuo senza alcun valore sociale o politico e di avere un carattere radicalmente docile e umile.
Sinceramente neppure questa shoccante esperienza ha provocato nel mio animo impulsi di ribellione, solo una profonda amarezza che mi accompagnerà fino alla morte.
Spesso avrei preferito avere un altro carattere, in altri momenti, vedendo la sorte toccata ai miei compagni, sono stato felice della mia vigliaccheria.
Certo la mia sopravvivenza oggi è alquanto triste, amara e molto solitaria.
Durante la notte mi tornano spesso alla mente le gocce di sudore che cadono sul selciato, ed i rantoli, i gridi, gli stridii, i rumori sordi nella notte, l'orizzonte piatto attorno a noi o le paludi putride in cui stare a mollo per giorni e giorni...
Rivedere dopo tanti anni gli altri sopravvissuti porta a ripercorrere tappe, ad avere bisogno di ricorrenze, a festeggiare la liberazione, a compiangere i morti, senza senso e, d'altra parte, non esiste altra via di scampo, altro filo conduttore della vita, se non la continua presenza incombente di questo passato irremovibile.
14. TEMPI DELLA LEGA
Provate un po' a raccontare a quelli della lega quanto fu faticoso passarci sotto la luce e sentirete come reagiranno.
E' certo che nessuno di loro si sarebbe mai trovato più carico di pesi e di tensione.
Per fare un esempio: noi siamo una nuova generazione e solleviamo circa una trentina di kilowattora a testa, non di più... e non é neppure un fattore energetico, é solo una questione di abitudini che sono mutate.
Tutti loro, ed allora "loro" erano tutti interni alla lega, (non si concepiva, in effetti, diversamente), invece arrivavano a 6.000 megawatt.
C'é da vergognarsi.
Però é anche vero un fatto: non lo facevano nei loro interessi.
Io, o tutti noi giovani, non passeremmo mai da qui a lì senza fari o sott'acqua.
E' molto faticoso e pericoloso per entrambi:
noi rischieremmo il sovraccarico (e, al limite, il cortocircuito) e i kilowattora la dispersione.
Non potremmo mai permettercelo.
Per loro non c'era ostacolo che tenesse, ma in verità ci erano costretti.
Questo fatto di essere tutti, ma proprio tutti, dentro la lega, ad esempio, sta a dimostrare da solo che qualcosa non andava bene.
Non é possibile nascere di un colore, di una qualsivoglia forma irregolare, e lasciarsi fondere in un unico materiale sempre dello stesso colore (per anni luce é stato così) - o meglio, la lega é sempre stata priva di un qualche colore e se ne avesse avuto uno si sarebbe chiamato "amorfo" - e fra l'altro si trattava certamente di roba pesante: non era mica facile sopportarsi a vicenda campando a quel modo...
Per cosa tutto ciò? Perché si dimostrasse a non so bene chi di poter raggiungere i 6.000 megawatt, quando non serviva a nessuno andarli a trovare e gli stessi megawatt (o kilowattora che fossero) stavano bene a casa loro senza bisogno di inutili spostamenti ( e di consequenti dispersioni per disoccupazione).
Siamo giunti ai nostri tempi in maniera contraddittoria: c'é molta tensione in giro, nonché molta carica, specialmente tra noi giovani atomi dispersi nell'atmosfera che ci poniamo il problema di essere felici oggi senza paura del futuro, ma con i vecchi sempre tesi nelle loro maglie metalliche a captare quanto più possono, per accumulare chissà quali energie, dimenticando, fra l'altro, che il patrimonio energetico di ciascuno non é trasmettibile, a lungo termine.
Per quanto mi riguarda ho messo su un gruppo elettrogeno: si chiama "Fughe di Gas" e mi diverto così, fra scoppi e scintille.
Vaglielo un po' a spiegare ai vecchi che non si tratta di un nucleo esplosivo, ma solo di un esperimento di pirotecnica!
15. ARIA
Correvo veloce attraverso le spesse pareti diroccate.
Un viaggio inconsueto per me che da poco conoscevo la materia.
La roccia col suo granuloso arroccarsi sembra volerti sempre scacciare da sé per conservare preziosamente tutto ciò che le appartiene. E' un po' come il gatto, sempre riservata. Solo frane imprevedibili, talvolta.
Non é come il mare: tumultuoso, docile o arrogante, fragile, irrequieto...
Troppo simile al mare, io, sono figlia dell'aria. L'inconsistenza é la mia identità.
Come potevo conoscere, o intuire, allora, la pietra, il marmo, le terre argillose o i sassi, quando ancora così giovane non avevo che il vento e me stessa come esempio... Quando ancora mio padre non mi aveva insegnato a viaggiare, a considerare gli spazi circostanti, a conquistare la terra e tutto per me era atmosfera, soffici luci, tenebre o fulmini e saette?...al massimo conoscevo la pioggia, poi il mare, e sono scesa.
Timorosa, molto insicura, sono scesa ed ho visto i campi verdi o gialli, le terre ferite dai grossi metalli lucenti, rosse, il sangue.
Tante tante bestie fatte di sangue che vivevano di natura o mangiandosi reciprocamente per non svanire, consumati, nella terra dove, a quel punto, li avrebbe mangiati la natura fatta di verde linfa, anche se comunque, consunti, sempre alla terra li ho visti tornare. Il loro sangue, rosso, quando bucavi quelle sacche che lo contenevano, ma poi marrone, e ancora terra.
Incredibile, stupefacente a dirsi, come questa terra, questa materia organica, potesse scacciare da sé e poi raccogliere in continuazione tante diversità in movimento...non solo, ma anche la stessa acqua, quella che da noi si addensava vaporosa e calda in nubi polverose per poi disperdersi fredda in elettricità e pioggia, assieme alla terra compiva connubi tremendi:
Capace, cadendo, di far spuntare germogli, di creare laghi dov'era deserto, o di abbattere foreste, se violenta, lì proprio dove le aveva fatte nascere.
Talvolta spariva e non si sapeva perché; talvolta saturava il suolo e riusciva in gran fretta, potente ed esuberante, correndo sulla terra sempre più vittoriosa, fin quando non raggiungeva il mare...
A quei tempi ogni cosa era magica. Non c'era niente che non fosse da vedere, da conoscere, da sapere, ma quando mi trovai di fronte alla montagna, inquietante e severa, capii che ero appena alla partenza.
Non mi è bastata la curiosità e così ho conosciuto anche il sentimento.
La curiosità é stata nel cercare ciò che non conoscevo e poi scoprire come fosse conoscibile: come ogni novità potesse diventare me ed io lei e così via.
Dopodiché incontrai la montagna il cui enigma mi sconvolse e trasformò il gioco in qualcosa di diverso, nuovo, che scontrava contro qualcosa di insormontabile ed inconcepibile.
Dapprima mi spaventai: presa dalla mia forza fino ad allora incontrastata, ero precipitata contro questa massa, ma, totalmente sconosciuta, la Materia, mi aspettavo che, come le nubi o le piante o i terreni erbosi o i fiumi o il mare, questa si modellasse al mio passaggio, si aprisse, si chinasse, fuggisse, si sgretolasse o altro...
Al contrario, io, forza di infiniti chilometri orari, mi disintegrai nell'atmosfera perché avevo sbattuto contro il Muro, contro la roccia.
Frastornata, sgomenta dalla nuova sensazione, volli capire cosa mi trovavo di fronte, perché non sapevo che cosa volesse dire la parola ostacolo.
Giravo attorno alla roccia e capivo che quelle tinte grigie, neutre, talvolta cristalline e limpide, quelle solide masse, erano l'unica entità da conoscere che avessi mai incontrato sul mio cammino.
Per questo, per anni e poi decenni, e per secoli... per ere ed ere, senza tregua, ho cercato la sua essenza.
E' potente la montagna, presente, unica indiscutibile, indiscussa.
Rifugio certo di centinaia di specie animali, di migliaia di vegetali...loro rovina...
Ricca di odori e di climi, fin là sulla cima, dove, quando splende il sole, i ghiacci gelidi brillano più di questo che li illumina, pur restando gelati e lontani...
Accarezzavo le sue solide fiancate, fischiando tra gli abeti folti che si affollavano alle sue pendici, e dopo di lei una e poi un'altra e poi tutte le rocce della terra. Scoprendo tutti i colori.
Non mi riusciva di penetrarla mai, anche se ora so che non é impossibile.
La roccia ha i suoi segreti, la sua anima nascosta, i suoi punti deboli, i suoi crepacci, le voragini, le esplosioni di fuoco dei vulcani, valanghe gelate per i boschi durante gli inverni...
Scoprii finalmente la grotta, la galleria, e da lì mi lanciai in un gioco esaltante, violento.
L'unico gioco che io conosca: la conquista.
Come resistere alla vendetta dopo lo sgomento
iniziale, quello sconvolgimento sgradevole mai provato fino ad allora e che volevo dimenticare.
Potevo solo dimostrare che non era stato altro che un piccolo incidente.
Non era un giogo che mi avrebbe piegato, bensì la lieve disattenzione di un'anima giovane e inesperta.
Così, con tutto l'entusiasmo che avevo, mi tuffai urlando nelle grotte, attraversai i crepacci, seguii i percorsi delle sorgenti, raggiunsi la lava ribollente dei vulcani. Senza tregua, senza interrogarmi sul futuro di ciò che mi circondava.
Senza morale, senza affetto, senza alcun sentimento tranne il desiderio di prevalere.
E' stato il gioco della mia vita fino ad oggi che ancora mi diverto ad attaccare la montagna.
Oggi, che l'affilatura delle sue guglie non è più che un ricordo a causa della mia continua e logorante frequenza.
Col tempo ho limato le vette, arrotondato le cime. In alcune zone più fragili sono riuscita a distruggerla, a forza di insistere, monotona, attorno alle sue forme.
Ho modellato sculture, nuove grotte e dolci colline.
E' infinito questo gioco, é il più stimolante, perché la montagna é tenace ed io anche.
Chissà, quando l'universo avrà compiuto i suoi cicli infiniti, può darsi che della montagna non resterà più altro che ciottoli bagnati dal mare. E allora sarà a lui che dovrò tornare, come all'infanzia, giocando a spruzzare la schiuma e a far correre le onde veloci contro la riva.
16. RITORNO
Scendi - dalle infinite gradinate di pietra - alte - rovinose.
In fondo il mare - e poi la sabbia - gialla sabbia infinita - e le montagne all'orizzonte - con le vette trasparenti di cristalli d'ambra - incandescenti al tramontare di quell'immenso sole rosso - laggiù ai confini della terra.
I gradini, massicci e ripidi, accolgono nei loro anfratti tutta la fauna primaverile delle rocce: lucertole e ramarri, serpi e salamandre sgusciano via nell'oblio dei cunicoli freschi al tuo incedere con passo pesante - quando avrebbero desiderato ardentemente lasciarsi cullare indisturbati dalla brezza serale, su quelle pietre roventi, nell'ultimo sole.
E intanto tu scendi - a sinistra precipita il mare, e alla tua destra la parete rocciosa, paterna e protettiva, si eleva per centinaia di metri, con le sue venature multicolori e la sua statura austera - incombente.
La abbandoni, adesso, ed é incespicoso il cammino: sono piccoli i tuoi piedi, nudi e graffiati. Sono sensibili le loro piante quando, con un sobbalzo goffo, le appoggi distrattamente sul gradino inferiore, facendole raggiungere l'una all'altra con un po' di incertezza e paura.
E' ripido il burrone, di sotto.
Laggiù, dove il sole morente tinge l'acqua d'oro e di rame.
Laggiù, dove il nulla si chiama tumulto.
Nel fondo della più totale incertezza, dove le onde possenti fremono nel loro rantolio sconfortante e cercano di trascinarti a loro per poter raccontare il loro angosciante continuo dolore, a te, così lontana, figlia del Sole.
Così tu scendi: sai di chiamarla Morte questa ricerca angosciosa, questa spinta al ritorno. ne riconosci l'odore: cosa importa?
E' così bello, con i gabbiani e le rondini, rumorosi e stridenti nel cielo incandescente, abbandonare l'assoluto, il limbo delle altitudini, delle vette cristalline e impeccabili, della roccia virile, per rispondere al fragile, mesto, caldo e crudele richiamo del Mare.
E la Terra si confonde in questa commozione, ti osserva, muta, scendere dalle sue gradinate imperiali, degne di un imperatore gigante, figlio di altre genti nativo di altri paesi, piuttosto che di una regina bambina dalla forma di arbusto secco non sopravvissuto all'inverno, così compreso nei suoi aridi rami e così stentato, da non riuscire a dischiudere le proprie gemme di primavera.
Sembra ancora inverno, questa sera. E' vero, l'aria é tiepida e con i gabbiani così bianchi urlano anche le nere rondini, e questo sole che tramonta é più grande, più vicino, più caldo.
Ma il tuo corpo é ancora intirizzito e rigido. Trema alla brezza e si comprime addosso le morbide vesti regali che lo avvolgono, ultimo colore nel tuo piccolo impero di solitudine.
Morbidi e leggeri, i tuoi abiti trascinano dietro ciottoli e foglie morte, strusciando sulle gradinate di pietra.
Com'é distante questo cupo mare, da quassù; ma il suo lamento é troppo infelice per non turbare la nostra quiete montana.
E non si può capire cosa cerca quest'ansia universale, insostenibile e continua. La sua monotonia non si può troncare provando a rispondere da quassù. La tua voce é troppo flebile per essere udita dall'abisso.
Il tuo corpo di ramo secco, troppo esile per essere notato.
Conviene scendere a valle, andargli incontro, a questo dolore, per provare a capirlo e a quietarlo.
Sarà il sacrificio di un re che potrà calmare i venti, o il mare, o permettere la costruzione di una fortezza? sarà l'immolazione del cuore di un bambino che lascerà al mondo la pace eterna?
Sarà, forse, ma questa angoscia é troppo grande perché non trabocchi il cuore nel bisogno di fermarla.
Così, scendi, scendi, e ancora scendi.
Calma, silenziosa, austera, come si addice alla regina bambina, ancora incorrotta dalla coscienza del proprio potere, educata, piuttosto, alla gravità del ruolo che peserà su di lei fino alla morte.
Così pensi che sarà la sabbia, che già non brilla più di colori dorati, regno di milioni di pietre preziose e vetri colorati e gusci di conchiglie, sarà la sabbia, che ora intravedi umida e fredda, così, da lontano, già bruna nel crepuscolo, che, quando la raggiungerai, saprà introdurti alla storia di questa morte infinita.
Lei sì che saprà spiegarti, perché é da sempre legata a questo mare, di questo mare é figlia e della vita é madre: lei é la Terra, figlia anche della roccia, della ripida montagna che, imperiosa, ti accingi ad abbandonare, scendendo senza sosta le innumerevoli gradinate che ti accompagneranno al mare.
Sarà soltanto a questo punto, quando la notte fonda cancella ogni idea, ogni universo possibile, proiettandoti nelle sole, piccole, chiare lanterne di salvezza nascoste in ogni stella, solo ora, che ogni piccola risposta sembra sciogliersi in questo buio, totale buio di un cielo senza luna, ora che il mare non é più distesa, ma sciabordio continuo accanto a te, e le sue onde sbattono accanto ai tuoi piedi e non vedi che guizzi argentati nel nulla, quando la notte é il niente e le stelle sono immagini del tuo desiderio, del tuo bisogno di un faro, è proprio ora: la tua veste striscia inumidita e si appesantisce, ricca di sabbia bagnata. Le tue gambe non scendono più. I tuoi piedi non si graffiano più sulle rocce appuntite, ma affondano infreddoliti nella morbida spiaggia e lasciano che questa racconti la storia al tuo corpo e alla mente, mentre le onde già carpiscono avidamente le tue caviglie, dichiarando con passione e veemenza la necessità che hanno del tuo gracile corpo e tu ti lasci condurre in questo gioco, in questa pressante e crudele richiesta d'amore.
Attorno a te non vedi che buio. I tuoi sensi sono saturi dell'odore di sabbia, e la salsedine nel vento, così aspra, alliscia e intirizzisce il tuo corpo.
Non c'é motivo, ma ti lasci cadere docilmente in questa trappola e vuoi credere ancora fino in fondo di poter dare un finale a questa storia, che questa morte perenne potrà finalmente cessare se tu ti darai, senza esitazione, all'incessante incalzare del nulla, a questo sensuale, affettuoso, bagnato ed avvinghiante mare.
E' solo in questo istante, in cui i tuoi capelli pallidi, resi pesanti dalla schiuma soffice delle onde, si trascinano con le tue vesti in balia delle correnti gelate della notte, che riesci a sentire, già preda del sussulto e del ritmico sbattere dell'oceano, riesci a sentire dal mare il significato della sua epica voce lamentosa e delirante.
Ne senti il suono preciso di parole d'amore eterno e comprendi che la sua pena é universale.
Ormai é sorto il sole. Alto, dopo l'oro dell'alba, la giornata canta potente nel suo quieto scorrere di nuvole bianche all'orizzonte.
E' placido il mare questa mattina, tremendamente calmo. Rompono il silenzio solo le grida dei gabbiani.
Sulle immense gradinate che i ciclopi scolpirono sui fianchi della montagna, serene, le lucertole e le serpi di primavera, si lasciano amare da un sole raggiante.
17. LIQUIDO
è acqua. lo so. fammelo capire. è liquida. fammi sentire. è fredda. fammi sentire. è dolce. fammi sentire. è bagnata. fammi sentire.
sono rospi, camminano tutt'attorno, anzi, non proprio, non proprio rospi, piuttosto invertebrati ma saltano.
ti sono intorno e poi sopra non te ne accorgi? ora raggiungono anche me.
ne ho mangiato uno. ha un sapore dolce sa di acqua é freddo bagnato gelatinoso.
cadono dei sassi anzi li calpestiamo.
ci siamo capovolti credo ma più che sassi si tratta di vetro.
è freddo ghiacciato, forse é la stessa acqua.
vuoi dire che si tratta di ghiaccio puro.
come faccio a dire se sia puro o meno? no si tratta di sassi sono duri e taglienti.
sì ti si é staccata una parte.
anche a te anzi ecco che già ne manca un'altra.
no sono sempre io e tu parli con una parte che non é più me.
sono sempre rovesciato ma ora anche i vetri. nell'acqua le cose non si vedono sempre bene.
sì il liquido dopo un po' diventa melma. piccoli ammassi gelatinosi eccoli addosso è difficile proseguire.
no non è la gelatina...ma é la sezione mia...
fai dello spirito
no
giusto anch'io ho vari distaccamenti trasparenti e mollicci
ci stiamo compenetrando
é meno interessante di quanto si possa pensare
piuttosto soffocante
d'altra parte io non ci sto più
piove
sono io che mi rigiro
sì non me ne ero reso conto
giusto sto cadendo nell'acqua
ma é tutto acqua
vedo i tuoi occhi sempre azzurri ora non li vedo più anzi sì ma come sono diventati enormi
lo disse anche cappuccetto al lupo che poi se la mangiò
ah sì? era buona almeno?
piuttosto liquida
18. X
Prosegue il tracciato. Tracciato millimetrato del quale perdiamo lentamente il conto.
Importante a quest'ora é però proseguire e basta nel tracciare i millimetri del percorso.
Ogni millimetro talmente esagerato é comunque una tale fatica da giustificare la totale esistenza di uno di noi.
Che dire quindi del riuscire a tracciare più misure? Oppure del riuscire a colorarle?...niente.
D'altra parte é pure vero che tracciate tutte le linee precedenti si spiega dinnanzi agli occhi la moltitudine informe degli spazi innumerevoli ancora tutti da registrare e sui quali ancora poter intervenire.
Una grande fatica per le nostre moltitudini non sempre coronata da soddisfacenti gratificazioni per i nostri sforzi.
19. ORIZZONTI
Nella più fragrante ignoranza si beavano e pascevano mentre a me toccava rincorrere il rapido e cercare di raggiungerlo per poi saltarci sopra.
Le ruote a quei tempi erano ben oliate.
Le rotaie lucenti. Gli sguardi fieri.
Non era poi così difficile correre e saltare e poi di nuovo correre e saltare. Ogni volta di nuovo e ancora sempre nuovi orizzonti.
Amavo non meno di oggi mangiare gli orizzonti.
Non a tutti piacciono anzi mi considerano una cattiva forchetta.
Loro piuttosto la terra o l'aria o altre cose ritenute più appetitose e tra l'altro più nutrienti.
Anch'io ne ho sempre mangiate di cose e situazioni.
Poi rischiavo l'indigestione, questo tempo fa, e mi consigliò gli orizzonti:
era uno straniero veniva da fuori e passava dentro proprio per caso.
Un gran simpatico comunque.
I rapidi sfrecciavano al sole ed io appeso a lui velocemente senza quasi accorgermene... una bella mangiata da sentirsi sazi e felici. Lontano - perché si finisce sempre molto lontano da tutto ciò che uno normalmente sa o ha.
E così sempre in qualche direzione da qualche parte sempre con lo sguardo fiero le rotaie lucenti e l'allegria.
Poi alla fine non é detto che resti un bel niente volendo solo il ricordo o la sensazione o l'acquolina per cui nuove tentazioni e fantasie.
Anche se col tempo un po' di ossido e polvere la stanchezza e la pigrizia la mancanza di cure ci si scorda un giorno di mettersi l'olio ed ecco fatto:
Rosalinda si é fermata (era un po' da ridere) e con lei ruotavamo molto spesso.
Anche in circolo anche in cerchi concentrici o a zig zag insomma si andava sempre.
Così a forza di girarle intorno per non lasciarla sola i rapidi neppure li vedevo.
Non mi interessavano più diciamo che me li ero quasi dimenticati.
Rosalinda era così simpatica all'inizio che valeva la pena.
20. VOLTEGGI
Tra le storie infinite puoi trovare questo costante scorrimento in cui ho passato i migliori anni della mia giovinezza.
L'aria soffia sempre e sempre calda nelle nostre terre e i giorni sono lunghi interminabili e si confondono facilmente con le sere e le notti: nulla cambia tra il giorno e la notte a parte l'arrivo o la partenza della luce o del buio.
Attorno sempre lo stesso movimento turbinoso delle morbide masse volanti che con piacere o con pigrizia si distendono e si contraggono per la pianura accaldata e stanca.
Io da sempre non ho potuto che amare questa agiatezza delicata e rilassante a cui tutte le nostre genti sanno di non dover mai rinunciare tanto quanto sanno di non poter mai cambiare.
Ma perchè cambiare? In realtà non c'é alcuna necessità di andarsene o di cambiare. Nessuna possibilità di soffrire né di desiderare la sofferenza in questa pianura sterminata ricca di profumi e di vento. Di giorno splende una luce compatta azzurra e tersa, fresca come il bucato. Tutto splende nei giorni e l'aria é densa dei nostri perenni rincorrerci dei veli del soffiare dei venti i fischi dell'aria nelle nostre fessure o tra le sottili membrane che vibrano attorno.
Il canto che ne scaturisce é universale e potente é proprio un canto del giorno ricco di luce e odori intensi porta al desiderio alla corsa allo splendere dei tessuti e al luccichio delle immagini veloci e confuse del giorno.
Poi scende la sera con leggerezza ci trova nello stesso turbinio in cui ci lascia al mattino ma noi non la sentiamo addosso con abitudine perché tutto é un continuo ripetersi ma anche rinnovarsi e così ogni sera é nuova e vera ogni giorno nuovo e vero e noi senza fatica anzi nel completo rilassamento andiamo e torniamo scendiamo e saliamo ancora anche nel crepuscolo caldo e morbido e il vento soffia implacabile e attorno tutto canta dolcemente la nostra allegria e la nostra assenza: noi che siamo attorno ma che non siamo.
21. DALL'INTERNO
Eccoci di buon appetito. Eccoci proprio sul limitare della fame.
Che dice la bocca dello stomaco?
Non si sente niente.
Dopo un po', volendo, si sente forte, sempre più forte, la fame.
Buon appetito. Sempre più buono.
Buon appetito. Sempre più buono.
salve e salvie. pranzo e pranzie manziazie e mangiatizi i salumi di tirenzio cuccuruccuccù pallomita a pallomitottola cuccuccuccuicucuciuzfuciufciufciufciufciufffffffffffffffffffffffffff
cccccciccciiiiaaaaaaaaaaaaaa!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
rrrrriiiiccciiiiiiccccccccccccccciiiiiiiiiiiiaaaaaaaaaaaa!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
22. CATASTROFI
Come arrivare giù in fondo alla scarpata crollare crollare ancora sperare di avercela fatta finalmente nonostante il volo e lo strapiombo nonostante il vuoto e la bufera e le rocce taglienti i rami secchi le radici che non reggono la terra che frana vedere la terra sperando che sia giunta finalmente la fine di questa agonia spaventosa e vedersi aprire sotto un altro crepaccio capire che era solo un istante parte della caduta infinita e vedersi prospettare un futuro ancora rovinoso e violento ancora vuoto terreno che frana sotto i piedi solitudine nessun aiuto continuare a crollare crollare ancora tutti i palazzi i grattacieli i castelli le regge a precipitare addosso e ancora finire giù senza fine e tutto addosso non avere neanche il tempo per farla finita ormai non più mancanza di tempo infinita povertà di tutto mancanza di tutto e nessuno con te tutto addosso proseguire a rovinarsi sfracellarsi senza potersi fermare una radice a cui ci si aggrappa quell'istante blasfemo in cui sperare di fermare il respiro di potersi regalare un pensiero o anche solo il desiderio di togliersi finalmente la vita ma questa radice si spezza anche questa e il rotolare é ancora più grave più crudele adesso che non puoi neppure fare quello che hai deciso troppi ricordi per farla finita per non sperare di farcela troppi affetti per non sperare di farcela troppo troppo di tutto che non c'é mai e forse più non ci sarà per non sperare di farcela non finirà mai però solo sassi brandelli di carne scia di sangue su questo percorso del destino ad altri belle strade autostrade percorribili in automobili fuori serie ultimo modello o aereoplani per volare lontano o sentieri nel bosco pieni di fiori a te é destinato questo sentiero che scende e che scende e rotolare e immagini miste e confuse e solitudine e roccia e spine e pezzi del corpo che si perdono si sgretolano i capelli si strappano le dita monche i piedi distrutti gambe maciullate poi verrà la fine mentre ancora si precipita verrà la fine da sola se sarà generosa saprà finalmente venire conscia del fatto che non ho tempo non ho mani né testa per chiamarla verrà.
Il secondo tratto del percorso é in salita e non si vedeva l'ora di smetterla di cadere e non riuscire più a guardare a pensare mentre invece al fondo si é prima o poi arrivati si é visto questo suolo fangoso e putrido questo fondo si é visto oltre é difficile poter cadere alla fine non si cade più ma si guada per qualche tratto quando é appena possibile si ritenta la risalita non che fosse la prima volta si é tentato molte altre volte la risalita si tenta per sempre é un continuo tentarsi e risalirsi piuttosto la caduta é sempre peggiore più difficile sempre più dura le ossa tutte rotte la pelle saltata via le croste i tagli il sangue sempre aggiunto al vecchio la salita é invece sempre uguale e il coraggio o la forza di disperazione o l'istinto di sopravvivenza o il desiderio mistico di elevarsi a dio tutto ciò porta alla stessa forza lo stesso coraggio non importa più il sangue la carne maciullata le braccia rotte i lividi le nausee confusione tutto tende verso il cielo non si pensa più che fino ad oggi non c'é stata risalita che non fosse seguita da una caduta sempre più dolorosa eccetera si pensa solo a dover risalire testardamente e ottusamente si desidera salire arrampicarsi assaggiare la roccia calda della montagna mangiare i sassi aggrapparsi tenersi riuscire a tenersi saldi piede su piede mano su mano gradino gradino piano piano il proprio corpo i propri muscoli e il proprio cuore valgono qualcosa valgono la capacità di muoversi finalmente come se non fosse mai successo camminare e salire abbracciare la roccia e gustare i sassi di tanto in tanto tiepidi al sole attorno il sole o la pioggia ma tutto basta finirla con questo cadere ruzzolare continuo nel corpo inutile e dolente nel proprio essere impotenti nella propria mancanza
Il secondo tratto é in salita dopo qualche tempo le mani sono doloranti ma la vista gode di paesaggi lontani e profondi fissi in un orizzonte deciso e poi sfumato ma che é lì ad esistere nel suo essere guardato e le mani allora riprendono a salire avidamente e i polmoni respirano aria sempre più tersa anche se piove il corpo é compatta esistenza in confronto all'inerzia della montagna e esserci esserci é quello che succede perché ogni muscolo risponde ogni senso percepisce ogni materia o colore sono gusto e tatto e la storia é concreta la propria storia dei passi che si susseguono e che si possono mettere uno sull'altro o come si vuole e piace ogni volta averli messi bene e vedere la propria ombra seguire e vedere le ombre delle nuvole sul proprio corpo e nella testa il cielo é terso e si sale sale sempre su queste rocce e le radici le soppesiamo prima che ci reggano e poi ci reggono a chi lo spieghi poi quando perché succede sempre che non reggono più a chi lo spieghi che ricomincia la nuova caduta sempre peggiore ti accorgi di tutta la nuova malattia del corpo ci si sente morti e si cade già morti senza poter nuovamente riuscire a morire perché la caduta che é morte non dà la morte e la salita è vita e non desideri più di morire non lo desideri affatto sei felice di vivere quando cadi non lo sei più non sei più niente anche soffrire é privo di parole é una x un punto interrogativo é uno scarabocchio incomprensibile il dolore in questa morte continua non ha più senso neppure sentirsi conficcare le pietre nei fianchi nello stomaco sbattere la nuca sulle rocce appuntite o spaccarsi i denti non lo si sa più niente é più esistenza tutto é solo aspettare che finisca che venga la fine la morte la clemenza il fango l'acqua la chance della risalita l'ultima possibilità il nuovo salvagente l'elicottero tutto é solo attesa.
23. STORIA D'AMORE
E l'angelo della morte scese.
Si chiamava Elisabetta: dio in sé. Gli occhi erano chiari.
Si posarono sui suoi ed i suoi videro quelli di Elisabetta che non sapeva di essere l'angelo della morte.
Erano belli gli occhi. Erano anche dolci. Chiari e intensi. Luminosi, ma imperscrutabili.
Erano loro, al di fuori dell'angelo, a dichiarare la morte a quegli altri occhi più stanchi, più lontani.
L'angelo guardava e non era il primo sguardo che incrociava nel suo cammino.
Altri già prima aveva sentito chiamare mestamente o urlare il suo nome.
Per costoro scendeva e appoggiava il suo capo su quel cuore afflitto o prendeva le mani del moribondo tra le sue o sussurrava parole qualsiasi per distrarlo da quello strazio dell'anima.
Il malato provava allora una nuova leggerezza, si lasciava andare con docilità e si addormentava.
In quel momento l'angelo silenziosamente si allontanava. Un ultimo sguardo di commiato e nuovamente in volo nel suo spazio, mentre alle sue spalle quel piccolo infelice sprofondava nell'oblio più completo raggiungendo l'insperato nulla.
Riprendeva il suo ritorno alla terra dopo la parabola del figliol prodigo che è la vita.
Anche questa volta l'angelo scese pietoso ascoltando le suppliche di chi lo reclamava. Lo guardò ed egli non lo riconobbe: si stupì soltanto di trovarsi di fronte quei due occhi tanto intensi, quell'amore.
Si amarono per questo: l'uomo non si accorgeva dell'angelo e l'angelo non sapeva di compiere un dovere. Sapeva solo, felice, di aver dato amore, di aver donato un pezzetto del suo cuore infinito. Sapeva solo di star regalando tuttodi se' in quell'estasi e di rispondere ad una voce triste e lamentosa, ad un pianto sommesso che implorava il suo nome.
L'angelo rispondeva con affetto a quelle insistenti suppliche, non sapeva fare diversamente:
non poteva far altro che cercar di dare e salvare e amare.
Questa voltà fu lo sguardo che incontrò a spiegare che non sarebbe stato tutto così semplice.
Si lasciarono così andare nell'eternità ed Elisabetta, l'angelo, ancora oggi é lì che dà, nell'eternità a quel cuore prezioso che continua a battere per lui, a quegli occhi che ancora fissano, a quella bocca che continua a sussurrare parole.
Tutti e due, uomo e angelo, perduti insieme in fondo all'eternità.
24. PIOVE
Vennero i giorni delle grandi piogge.
Qualcuno li chiamò i giorni delle grandi lagrime - e tutto il creato si lamentava della distruzione, della crudeltà, della sopraffazione, della violenza.
Tutto il mondo piangeva. Piangeva sempre e poi più spesso a raffiche. Attimi di tregua talvolta.
I fiori, tristi, reclinavano la corolla in segno di disperazione. Gli uccelli non cantavano quasi più. I cani ululavano.
Le genti si ammalavano e si ammalavano di tutte le malattie e soffrivano nel loro cuore di tutte le violenze subite e delle torture.
Niente, niente poteva colmare questa sofferenza dilagante. Questo vuoto dell'animo.
Siamo qui - dispersi - uno accanto all'altro senza vederci - ogni tanto ci tocchiamo e non lo sappiamo neppure.
Non riconosciamo più neppure le nostre stesse membra - siamo qui - disperati - e tutto l'universo preso dalla sua sofferenza ci abbandona.
Continuiamo a costruirci un'armatura e poi a costruirci uno scudo e poi una spada e poi una fortezza e poi un fossato e poi un esercito e poi cerchiamo di capire chi potrebbe essere questo nemico.
25. NODI PALI POLI
Tirata agli antipodi della terra.
Io - stesa sopra me stessa - legata - la mia elasticità - ai pali ai poli.
Niente di che oltre al grattare delle montagne sulla schiena al punto dell'equatore e l'umidità in cui restare a lessarmi , tra le acque salate dei mari.
I nodi ai poli e la tensione all'equatore: un gran da fare senza fare niente.
Mi piacerebbe fare un giretto, ma non ci riesco mai - neppure su me stessa.
Finché non arrivano i picchi - non sono molti ma - tutti insieme - si mettono all'opera in un punto qualunque - becchettando qua e allentano la mia tensione e sbrindellano l'elastico.
I pezzi saltano via che è una meraviglia fino a che, bene o male, non salta tutto rimanendo in due pezzi annodati ai pali dei poli.
Io sono al polo nord e non so che fare - come prima - tranne che sono talvolta occupata con degli iceberg in movimento e smottamenti dei ghiacci.
Del freddo me ne faccio una ragione.
La parte del sud è ormai solo un ricordo storico e - così lontana - non posso proprio immaginare cosa stia facendo.
Credo dica e faccia le stesse cose che faccio io.
O forse sono io al sud?
26. KONCERT
Siamo circondati - mi dicono - mi faccio largo tra la folla - a vederli sembrano terrificanti - tutti neri lucidi - gli abiti - capelli deturpati dalle falciatrici elettriche e dagli acidi - volti bucherellati tra i pendenti e infilzati da lame di metallo - ossicini.
Molto più alti - la maggior parte - di quanto non possa pensarmi io - pesanti nei loro grandi scarponi neri - non indossati - come tutto quest'abbigliamento esagerato - per sopperire alle incapacità di un fisico ma per accentuarle dato che il caldo emanato dalla calca il fumo e il movimento ondulatorio della massa disorganica tutto dovrebbero suggerire tranne l'uso di abiti così pesanti e ingombranti.
Larghi come armadi - tutti i sessi del mondo - incombono sullo spazio uno contro l'altro scambiandosi energici spintoni e gomitate senza risentimento - e anche calci .
Su di un palco - tra fumose funeree luci intermittenti - fumosamente incazzati - provocatori di suoni orripilanti generano aborti di grida nella rabbia più cieca e il più puro rumore assordante che attraverso immensi altoparlanti sa distruggere ogni residuo di sensibilità insita nell'individuo.
Tutto intorno questa imponente civiltà violenta diretta e cruda a suggestionarmi - a considerarmi fuori posto - piccolo alieno - nonostante il mio cuore - per quanto di fragili apparenze - covi odio e rancore e sete di vendetta e sangue.
Al contrario tutt'intorno sono molto bravi a cantare la rabbia e a ballarla.
Sono qui - nel campo dei pirati - dei farabutti - e vorrei imparare ad esternare il mio odio nel modo più tagliente possibile - sono qui tra i massacratori delle genti che urlando si sbattono e si strappano le vesti di dosso - sudore e alcool sono i liquidi - vapore di respiri accaldati e materia fatta di corpi di carne e sangue e pelli nere e lucenti argenti lunari.
Messaggi sanguigni - virili - marziani - ritmi di guerra mi accendono.
Sono felice - sprofondando - di trovare linguaggi adatti al mio odio ancestrale - alla mia atavica castrazione - alla mia sete di vendetta.
Tribù di nuovi barbari orrendi sfregiati e virili sono le truppe a cui allearmi per seminare distruzione e morte.
Sentono questo le mie viscere più contorte - i miei intestini - le mie vene gonfie.
Sentono questo avidamente - esultando.
Che delusione quando - ad un certo punto - si riaccendono le luci e la folla che sembrava imbestialita di colpo rinsavisce - ognuno smette la sua guerra personale - non si agitano più e - in linguaggi più che riconoscibili dagli accenti corretti e in buona grammatica li sento tutti intavolare asettici discorsi come l'università di domani - la festa della zia - l'acquisto della maglietta - i capelli dal parrucchiere - l'incoscienza di tuo fratello - la pigrizia dell'amica sua.
Anche la banda del rumore dietro il palco eccola là dietro le quinte alle prese con il manager preoccupato per la cena da consumare subito e pieni di sorrisi chiacchierano adesso di questa città - della vista panoramica - delle ragazze - dandosi salutari pacche sulla schiena degne dei più gratificati tennisti - e con quelle che li vanno a salutare con occhi degni della Bella Addormentata eccoli instaurare graziosi rapporti amichevoli fatti di sguardi maliziosi risatine e long drinks.
Uscito nella notte mi premunisco del materiale esplosivo adeguato per fare esplodere tutto il locale con quella stupida gente dentro. Ah Ah..
27. POCO DI BUONO
Le orecchie tirate tirate indietro gli occhi si allungano si divaricano si assottigliano il naso si schiaccia si incurva si allarga le labbra si appiattiscono la bocca sia allarga in una sorta di ghigno beffardo - con questo sguardo - con questa faccia - guardo il mondo
Con una faccia tirata e avvolta nella calza del rapinatore.
Con la mia faccia.
McBett®1991
Gruscapalrot,
mago nano del Gott,
avevi sette granchi
che facevano frog
Gruscapalrot,
il primo granchio ha trovato nel mare la madreperla regina, il secondo ha catturato per te la pulce ballerina, il terzo ha seminato tre campi d'ortica, il quarto la miete e la fila, il quinto ha tessuto tappeti fatati, il sesto custodisce il tesoro dei nani, il settimo comanda gli uccelli al tuo servizio.
Ho attraversato il Fiume, dato che ti cercavo, ma non ho trovato che deserto.
Ho attraversato il deserto, dato che ti cercavo, ma ho incontrato la montagna.
A lei che è molto anziana e saggia ho chiesto di te e lei mi ha diretto ad est, dove avrei incontrato la foresta.
Ho incontrato la foresta e non solo lei, ma anche i suoi abitanti, così ho conosciuto il lupo (e non mi fu amico), ho giocato a carte con gli elfi, ho discusso con una vecchia maga solitaria e fu lei a dirmi che abitavi nel nord, prima del ghiaccio, nelle terre brulle.
Ho raggiunto le terre brulle e in lontananza si vedeva il mare, così mi sono aggrappato al vento e ho raggiunto i tuoi granchi.
Il primo mi è venuto incontro senza parole, ma io ho capito che tu eri lontano, il secondo lo seguiva e aveva per me un vassoio di alghe.
Ho mangiato per tre giorni quanto basta per non aver più fame, alla fine il terzo e il quarto granchio mi hanno offerto il tappeto di ortiche, che da solo sapeva che dovevo arrivare da te. Così il quinto mi ha dato una penna il sesto una pergamena il settimo l'inchiostro nero e un saluto.
Per questo ora che ti ho raggiunto ho potuto portarti un regalo: il mio taccuino di viaggio e un po' di stanchezza.
2. INGRANAGGI
Grandinava. Questo è stato un motivo valido per non inseguire Gedeone.
Non che Gedeone fosse più veloce di Noi. Tutt'altro.
Inoltre Noi avevamo anche le ruote, mentre lui era solo scivoloso; e Noi avevamo anche un arpione con cui avremmo potuto facilmente toccarlo.
Ma aveva preso a grandinare, e quel ghiaccio lì in mezzo, che faceva tutte palline, ci stava così male e rendeva tutto tutto così complicato, che, presi da un gran mal di testa, optammo per la ritirata.
Fu allora, mentre tutte le nostre ruote facevano inversione, che vidi Gedeone, tutto sorriso, che scivolava ancora di più su quel ghiaccio rotondo, felice e beato.
Iniziai a farmi verde di rabbia, ma tanto verde che a tutti parve troppo verde e così si decise di ingranare la quarta per non rischiare di richiamare l'attenzione di Gedeone con quel colore.
Solo che il verde fece stridere la mia ruota e tutti cigolammo involontariamente e Gedeone, che scorreva fino ad allora ignaro, sentì il cigolio e si voltò; pur continuando a pattinarsi addosso, vide il mio verde, si stupì, si stupì tanto che iniziò a sciogliersi, cosicché (non l'avesse mai fatto!) ci sommerse con la sua fiumana liqueforme e ci arrugginì tutti i legamenti.
I miei non riuscivo più a guardarli dalla vergogna, ma più ci pensavo più diventavo rosso, tanto rosso che alla fine, tra la vergogna e il liquame di Gedeone, eravamo diventati un monte di ruggine.
E' in queste condizioni che racconto mentre i miei fanno battutine di dissenso per la situazione in cui li ho ficcati e la mia vita oggi é un cumulo di rimorsi che, purtroppo, non riuscirò a superare facilmente.
3. SEMAFORO
Sotto la strada, oltre la ghiaia che tiene l'asfalto della città. Sotto le fondamenta dei grattacieli, più in profondità della metropolitana, c'è una grande centrale con un omino che corre.
E' la centrale più grossa che si possa pensare e così piena di luci e bottoni da non capirci più niente solo ad entrarci.
Solo lui é all'altezza del compito e corre in continuazione su e giù a spingere pulsanti sulle pareti, sui ripiani, su aggeggi elettronici infernali.
Sulla superficie, la vita prosegue in maniera regolare:
Quando Teobaldo con la sua balilla rossa arriva all'incrocio con via dei Melograni, c'é un semaforo rosso che lo avverte che Paoletta e Gigio stanno attraversando la strada. Nello stesso istante, Paoletta e Gigio, mentre si trovano ad attraversare via dei Melograni sanno di poterlo fare con fiducia perché un segnale verde permette loro di muoversi.
Nel senso inverso c'é Rebecca Maria che prende gioiosamente la prima a sinistra, mentre sul bordo di questa stessa strada Annette e Giulio Cesare aspettano con impazienza di poter attraversare.
Loro non sanno che: se Teobaldo con la sua balilla rossa non ha messo sotto Paoletta e Gigio e non é andato a scontrare contro Rebecca Maria che gli tagliava la strada mentre tutti quanti finivano col mettere sotto Annette e Giulio Cesare che attraversavano indifferenti... se tutto questo non é accaduto e tante cose ancora non sono accadute, é stato solo merito suo: l'omino della centrale dei bottoni, che dalla mattina alla sera di ogni giorno dell'anno percorre senza sosta alcuna un tragitto preciso e determinato, per illuminare un rosso o un giallo o un verde, che é in sintonia con quello che lo attraversa e così via nell'intreccio di rete e maglie fittissime creato dalla metropoli.
Immaginiamoci noi, comuni mortali, a correre così irrimediabilmente come indemoniati per spingere bottoni in una stanza fatta di pulsanti luminosi e levette.
Neanche tre ore di fila resisteremmo.
Ecco perché credo che lui non sia un essere umano vero e proprio.
Io lì sotto non sono mai scesa, anche perché dopo che hanno costruito la centrale e ce lo mandarono a lavorare, neanche gli altri sono mai scesi giù a fargli compagnia.
Comunque da allora lui é sempre lì. Sennò ce ne saremmo accorti, perchè sarebbe scattato il verde contemporaneamente in più incroci e tutti sarebbero ora ammonticchiati come lenticchie, oppure il rosso che é scattato alle 13,20 sarebbe rimasto tale fino ad ora provocando una (non so quanto grande) fila interminabile piena di clacson rumorosi e parolacce.
Certamente sembra che qualcosa di deteriore si stia propagando e spesso i meccanismi infallibili controllati dal nostro uomo si rivelano fallaci.
Credo che sia la vecchiaia e che lui abbia intenzione di andarsene in pensione. Tanto più che ultimamente hanno scoperto dei marchingegni che, messi lì fra i bottoni, possono fare con una piccola carica, tutto il lavoro del nostro omino.
Allora succederà che ce lo ritroveremo al mare steso sulla sdraio vicino a noi che gioca alle parole crociate, senza paure e angosce come in quegli anni in cui i bottoni colorati lo riempivano di responsabilità nei confronti del mondo urbano e potrà finalmente sentirsi normale come tutti e mangiarsi il suo gelato al pistacchio, limone e fragola.
4. DISTESA
Una fila interminabile di bruchi verdi strisciava da Gallipoli a Marrakesh.
Io tagliavo loro la strada in un punto non ben definito, ma loro mi passavano sopra senza indugiare e senza chiedere mai "permesso" o "mi scusi".
D'altra parte io ero lì, immobile, tutta d'un pezzo, (o meglio, non più così d'un pezzo come una volta) e l'unica alternativa che avrebbero avuto, sarebbe stata quella di circumnavigarmi, ma io stessa l'avrei ritenuta una follia.
In effetti mi sono resa conto, col passare del tempo, di essere cresciuta talmente da non avere più chiara la conoscenza degli spazi che occupo. Non so più neppure di che materia si compongano le mie membra.
Da giovane, ad esempio, dovevano essere tipo gelatina, ma a quel tempo, sicuramente, non erano più così.
Lo sentivo anche dalla mia consistenza. Doveva essere qualcosa di estremamente opposto alla gelatina, ma purtroppo non riuscivo a concretizzare questa mia presenza.
Comunque era da un lungo periodo che i bruchi verdi pellegrinavano da Gallipoli a Marrakesh e passavano su di me senza tregua.
Per me non ci sarebbe stato alcun problema di sorta nel permettere un attraversamento da parte di chicchessia; l'unico problema reale era che, da qualche tempo, avevo iniziato a soffrire atrocemente il solletico.
All'inizio non era proprio così atroce: iniziai dapprima ad essere sensibile alle loro zampettine minute e questo mi provocava, solo ogni tanto, piccoli brividii di fastidio subito controllabili.
Lentamente, però, questa sensibilità é aumentata, fin quando il camminare continuo dei bruchi verdi stimolò così tanto i miei sensi al riso che ero costretta continuamente ad agitarmi per non morire soffocata.
Il guaio era, inoltre, che sembrava non finissero mai di passare.
Mi accorgevo che questi ultimi pellegrini dovevano sentirsi un po' traumatizzati da questo mio agitarmi e ridere a crepapelle, ma, d'altra parte, il continuo zampettare aveva creato un solco tanto profondo sulla mia superficie, che ormai ero a contatto diretto col senso e mi costringeva a far procedere tutti a scosse e balzelloni.
Non ho mai sofferto tanto e non mi sono mai divertita tanto come in quel periodo.
A tratti avevo la certezza di dover soccombere da un momento all'altro.
In altri momenti mi lasciavo andare di gusto ed allora era come se tutto il circostante fosse inverosimile, ed io ero felice felice e ridevo ridevo con gioia, come nessuno, credo, potrà mai comprendere.
Questi periodi gioiosi, fortunatamente, riuscivano a durare per mesi e gli attimi di panico erano, invece, solo istanti, come quando si dondola leggeri sull'altalena e all'improvviso la vertigine fa pensare alla caduta e allora si rallenta, ma solo per poi ridarsi lo slancio e cercare ancora una volta di toccare i rami degli alberi.
Così proseguì per infiniti spazi di tempo, fin quando un bel giorno quest'avventura finì di colpo.
L'unico modo in cui poteva terminare era di colpo: finiti i bruchi verdi, finita la storia. Ma per me fu una sensazione talmente amara, quella che mi costringeva a ritornare alla realtà banale e vuota della mia pura essenza, che non mi ripresi più.
Ogni tanto le foglie degli alberi cadevano sul solco tracciato dai bruchi verdi ed io facevo finta di sentire lo stesso divertimento di allora; ma finiva tutto lì ed era solo una delusione ulteriore.
Non che non passasse mai nessuno di là, ma piano piano i sensi si rifiutarono di essere percettivi.
Ero stata troppo felice e troppo a lungo per potermi accontentare di sporadiche frazioni di allegria in un continuo, grigio dormiveglia forzato.
Così, spinta da una forza interiore, iniziai a cambiare materia e ad indurire il mio cuore, ma tanto, ma tanto che credo di essere diventata una montagna.
So che se qualcuno avesse detto del mio futuro una cosa simile gli avrei detto che si sbagliava, ma il tempo, in fondo, é fatto per farti capire cose nuove, così io, ora, così diversa, aspetto che lo stesso tempo consumi la materia e che io possa dimenticare.
5. COLLEZIOMANIA
Abbiamo fatto incetta di Concetta, anche se non ci serviva, solo perché ci ha preso così.
Non c'é sembrata molto consenziente: continuava a borbottare di certe storie romane e di ratti delle sabine.
Insomma non era l'azione migliore che si aspettava da noi.
Dopo questo primo tentativo ci è sembrato così divertente fare incetta di Concetta, che non ci siamo fermati alla sola Concetta prima, la lei conosciuta dagli albori della nostra infanzia.
E' così che nacque la nostra mania di tipo inglese - la colleziomania - portata ad uno stadio talmente paradossale che, se ci penso, mi sento un malato, solo che non ci penso.
Alla prima Concetta, dicevo, l'amica grassoccia della mia infanzia, si è aggiunta, quindi, la comare magra della strada parallela.
Anche lei mi è parsa poco consenziente, solo che é un po' tocca e, dato che per lei stare lì o stare qua non fa differenza, non si é lamentata.
Girando per il paese, abbiamo accompagnato nella "stanza da collezione" anche Concetta Saltelli, la cugina della suocera di Ignazio.
E' stato lui a ricordarmi di lei, e l'acquisto é stato facile, dato che in casa sua non la sopportava più nessuno e noi non è proprio detto che si debba sopportare qualcuno.
Sul carretto discuteva e questionava come un avvocato, ma noi, prevenuti, pensavamo ai fatti nostri e cioè che la nostra collezione aveva ora il pezzo numero tre.
Concetta Pallottini, invece, " la regina", fu per noi motivo di un certo imbarazzo.
Sarebbe certamente stato un singolarissimo esemplare della nostra collezione, ma, dato il personaggio, non era di facile cattura.
Se ne stava nel suo bunker blindato ad attenderci con la lupara, così come attendeva tutti i suoi ospiti, col solo particolare che ci conosceva talmente che non avrebbe mai e poi mai fatto entrare per nessun motivo al mondo nessuno di noi.
E' stato sempre Ignazio (il furbastro!) a gabbarla come una polla, e pregando e bestemmiando contro di noi, tradendoci in ogni parte del corpo e dello spirito, mentendo spudoratamente, le giurò e spergiurò ogni cosa più atroce nei nostri confronti, da mattina a sera, fin quando Concetta non si convinse profondamente che egli avesse veramente qualcosa di molto triste da raccontarle, riguardo un qualche torto subito dalla nostra cricca.
Così, complicemente, gli aprì, ma non fece in tempo a dirgli "cucù", che lui le diede una mattonata in testa e se la portò via tutto contento.
In noi, nel compiere simili atti, non esisteva ombra di libidine. Era pura mania.
E' per questo che in questi pochi attimi di lucidità mi sembro folle; solo che questi attimi sono effettivamente pochi e di poco valore.
Siamo arrivati, in quattro mesi, a collezionare diciassette Concette.
Tutte chiuse dentro una grande stanza, dove parlavano, si lamentavano, gridavano, piangevano, studiavano piani d'evasione, o ridevano a crepapelle.
La cosa più divertente era spiarle conversare e cercare di capire come potessero distinguersi a vicenda.
Solo che dopo un po' iniziarono a coalizzarsi in massa.
Smisero di chiamarsi "Concetta" a vicenda, ma si chiamarono per cognome, così che Concette erano oramai ben poco. Poi, dato che in noi non esisteva alcun tentativo effettivo di coercizione, si accorsero che bastava dare qualche spallata alla porta per buttarla giù e andarsene.
Così hanno fatto e nessuno della nostra cricca é riuscito in tempo a preparare una macchinetta e a scattare qualche foto da repertorio di questa collezione da miliardari.
Fattostà, che siamo ancora qui, in questo monocamera in affitto, che contiamo i ceci che ci spettano a testa, senza alcuna speranza vana di gloria.
6. PARTE DELLO SPAZIO
Non crediate che questa mia realtà non sia vera:
Effettivamente io mi trovo qui a rappresentare la mia vita su di un foglio e tutto ciò che é di me é questo foglio stesso.
Non mi é mai successo di essere altro che nulla.
Non so qual é la sensazione che determina l'essere qualcosa. Per questo, anche, spero di poter scrivere a lungo, in modo che la mia "vita", così come si intende oggigiorno (in questa maniera così materiale, fisica, atea, precaria), possa dirsi vissuta per un po'.
Non mi ha mai creato problemi questo mio essere pura essenza.
In fondo credo di potermi ritenere soddisfatto.
Tutto ciò che concerne la vita su questa terra mi crea solo curiosità, mai invidia.
Vedo che voi provate molto ribrezzo al pensiero di trovarvi in una situazione analoga alla mia. Pensate che se doveste trovarmi nel mio stato vi sareste giocati tutte le vostre carte e non avreste altre possibilità.
Credete che l'esistenza sia la situazione ideale per potersi determinare, ma io sento di avere comunque molte certezze, nonostante nessuno mi abbia mai considerato, e nessuno abbia preso in considerazione le mie opinioni.
Il fatto é che non mi curo molto di voi, o meglio, mi curo di voi come del resto, e tutto é molto più vasto di quanto voi stessi crediate.
Per esempio, oggi mi trovo qui, ma questo é la prima volta che mi capita da sempre. Sono contento di essere qui, perché è un'esperienza divertente materializzarsi in un linguaggio specifico, con un inchiostro e una macchina da scrivere che a fine rigo fa "bip!" e si ferma. E poi "trattatattà" finché non é di nuovo "bip!".
Io sono contento, tutto ciò mi é facile, anche se nuovo, ma domani sarò già altrove e sarà sempre una novità. Potrà essere ovunque ma non mi sconcerterò mai.
Non so se potreste sempre dirvi contenti di questa vostra storia.
Specialmente perché anche voi prima eravate parte dell'universo come me e tornerete ad esserlo.
Questo relativo periodo di esistenza sarà per voi solo un'illusione ed é per questo che ve la prendete così pesantemente.
E oltre tutto vi credete di avere in mano tanti strumenti, quando, invece, ne avete solo persi tanti.
Io credo che non dobbiate montarvi la testa così tanto, dato che ogni esperienza vale per quello che é e non c'é mai stato nessuno che vi ha detto che capitando qui, invece che là, ci sarebbe stata differenza.
Credo, per esempio, che questo spazio nella vostra esistenza, per me, sia già sufficiente. Ho già scoperto molto e difficilmente mi innamoro di qualcosa.
Che altro avrei da fare qua sopra? Il tempo é eterno, ma corre sempre più in fretta di tutti...
7. FORME
Il nostro rifugio era a due passi dal mare.
Ci andavamo per chiuderci dentro e vedere la luce del sole filtrare attraverso la griglia sul soffitto, dall'alba al tramonto, e cambiare gradualmente le ombre, i riflessi, i brillii delle cose attorno a noi.
La stanza era bianca, i solidi che la componevano, delle forme più strane; erano bianchi anche loro e tutto si riempiva della luce penetrante attraverso la griglia.
Noi pure, così bianchi e immobili, sparsi al centro della sala, o confusi sulle pareti, tra qualche solido, o attaccati al soffitto, restavamo ad amare le nostre ombre ed il percorso che esse facevano, fino al tramonto.
Non c'era altro. Solo che una volta mi trovai da solo a confondermi tra le cose dopo il calare del sole.
Tutti, quella sera, lentamente, si erano dileguati nell'ombra. E' difficile e raro, infatti, che ci si ritrovi anche dopo il tramonto, quando le forme si fanno meno nette ed i corpi non sono più definiti.
Allora la notte fece tutto un altro gioco a me sconosciuto col quale scoprii cose nuove.
Restai al mio posto imparando che esiste questa nuova fase dell'esistenza, la notte, che si inventa ogni cosa in modo diverso e contrario.
Quella sera la luna era piena. Del suo percorso studiai ogni variante minima, come facevamo sempre per il sole ed essa non era molto diversa.
Quando raggiunse il centro del cielo tutto ciò che mi circondava prese nuovamente una dimensione concreta.
Il circostante non era bianco smagliante, però, ed i giochi non li creavano più le ombre ed il loro movimento graduale.
Questa luce leggera, radiale, ultraterrena, evidenziava dei particolari di cose, cambiando i suoi oggetti, mentre si spostava da oriente ad occidente.
Evidenziava dei particolari soltanto ed io non seguivo più i neri o i grigi delle ombre, ma i chiarori delle zone di luce.
Il resto era dolce oscurità.
All'alba gli altri apparirono allegramente nel rifugio e notai emozione nei loro atteggia-menti e sorpresa nel trovarmi già lì.
Trovai molto difficile farmi capire.
L'aurora era leggera e fresca quella mattina e fece dimenticare a tutti la mia azione sleale.
Il sole sorse più abbagliante che mai.
Le luci e le ombre si stagliavano nette nel progredire lento della giornata estiva.
Io ero, però, emozionato ed impaziente: desideravo spiegarmi ed invitare tutti alla permanenza notturna.
Ma non potevo comunicare durante la giornata, tutto era molto lontano da me.
Fu molto bello anche la seconda notte.
La materia, così fulgida e brillante, nella notte emanava un minimo, pallido lucore.
La nostra vista penetrava, poi, nelle gradazioni più fonde del buio, conoscendo nuove realtà ci portava ad essere diversi, a partecipare, nella sua totalità, del ciclo cosmico, a sapere tutto, in ogni senso, dell'esistenza e del nulla.
Senza accorgercene troppo, la nostra sostanza accettava di esistere nella sua totalità.
Non c'era più un porsi parziale e condizionato. Non c'era più una scelta.
Lentamente diventavamo materia, materia sempre più pesante, sempre più solida, sempre più immobile.
Le pulsazioni non servivano più. Tutto si fondeva nell'aria, se era sentimento.
Diventammo noi il nostro rifugio e il nostro rifugio entrò in noi.
Da allora le ombre e le luci ci percorrono insaziabili in ogni ora del giorno e della notte.
Il nostro delirio é cessato ed é morta la nostra chiara consapevolezza di essere.
Ci potrete trovare ancora lì, se volete, a due passi dal mare: siamo parte della roccia rugosa che profuma di sale.
8. DI FRONTE
Precipitava continuamente dinnanzi ai miei occhi, senza tregua.
La situazione era realmente strana: continuava a precipitare e mi restava sempre dinnanzi agli occhi.
Capivo che stava precipitando dalla posa che prendevano le sue membra, dalla corrente che lo tirava verso l'alto.
Ma era sempre lì e non si allontanava mai.
Catturò il mio sguardo dal primo momento che mi capitò davanti e da allora il mistero del suo cadere perpetuo restò un enigma da risolvere.
Con la vecchiaia mi sono reso conto che c'era solo un modo per chiarire questa stranezza: anche io, con lui, alla stessa velocità, stavo precipitando.
Ecco qui il punto: non mi sono mai osservato in vita mia, né, tanto meno, ho fatto caso a sensazioni o emozioni che riguardassero il mio corpo; asetticamente ho sempre guardato lui cascare giù e già era tanto che mi ponessi un problema riguardo il suo restar lì, sempre allo stesso punto, figuriamoci, quindi, se avrei posto qualche dubbio circa la mia esistenza, o su di un eventuale movimento del mio essere.
Il fatto che, invece, stessi precipitando, quando me ne resi conto, fu per me incredibile: mai avrei pensato di poter essere qualcosa, tanto più di poter porre al mio esistere un movimento definito.
Inoltre intorno a noi non c'era altro, per cui non potevo confermare all'esterno la sensazione di caduta:
non c'era niente di fermo che, mentre noi cadevamo, salisse ai nostri occhi fino a scomparire dalla vista.
Nel nulla assoluto, ad un certo punto non molto chiaro della mia esistenza, a causa di un individuo mai identificato che mi cadeva continuamente davanti allo sguardo, io mi sono sentito precipitare, ed ho capito che "quello" era precipitare.
Poi, non fu più a quel modo.
Continuando a guardarlo e vedendo come si contorceva in versacci e linguacce, cambiai opinione.
Non eravamo in continua caduta, ma da sempre stavamo fermi tutti e due.
E lui, bislacco e stupido, era fatto in quel modo tirato verso l'alto, (i capelli, le rughe del viso, i vestiti e i lacci delle scarpe, tutti andavano verso l'alto), ma la cosa era statica, non c'era un bel niente, infatti, che determinasse una caduta, come, ad esempio, un tonfo.
Non c'era mai stato un tonfo in tutta la nostra esistenza:
A meno che il nostro movimento non fosse circolare ed infinito, noi eravamo fermi.
Così, nell'ultima fase della mia vita tornai alla primaria sensazione di stabilità, seppure, anche questa, mai confermata da altro attorno a me.
Comunque lui era veramente molto noioso.
A parte che dopo un po' di tempo solo il fatto di avere qualcosa di specifico da vedere in continuazione mi dava sui nervi, c'era che lui, in particolare, sembrava facesse di tutto per risultare antipatico.
Non ho mai capito perché si comportasse in maniera tanto provocatoria, dato che, da quando stava là, c'ero solo io a potergli fare compagnia, eppure mi trattava malissimo.
Faceva versacci rumorosi in continuazione e poi boccacce e gesti volgari.
Ecco che dopo aver capito che nessuno dei due precipitava e che era probabilmente la sua idiozia a drizzargli tutte le cose verso l'alto, mi posi sullo stesso piano di battaglia e mi trasformai in tante punte, allargai lo spazio che mi apparteneva in modo da finirgli addosso, così che lui (finalmente lui) adesso soffriva.
Vederlo soffrire era così divertente che dal gran ridere le spine si afflosciavano e rientravano.
Facevo sforzi enormi per restare serio e diventare sempre più appuntito e tagliente.
Successe che una volta soffrì talmente che la sua faccia sembrava una maschera.
Cercavo di restare serio, ma lo sforzo fu così grande che scoppiai in una grande risata e centomila brandelli, miei e suoi, rotolarono nel nulla più infinito senza riuscire a ricomporsi mai più, anzi mescolandosi in un modo schifoso.
Mai avrei pensato di finire col mescolarmi con quello là.
Anche se da allora ci furono molte cose nello spazio, non riuscii mai più a capirci niente. Da allora infatti rotolo in continuazione e tutto il resto rotola con me.
9. PASSEGGIATA
Giacomo ha preso un mezzo, perché tutto intero non ce la faceva.
Allora Raul ha preso un altro mezzo.
Insieme ne hanno fatto uno intero, ma non basta.
"Se andiamo insieme a trovarli tutti e tre (Giacomo, Raul e l'intero) possiamo conoscerlo e farci spiegare il dilemma".
...Allora anche noi abbiamo preso un mezzo, ma per tutti e tre noialtri non bastava.
Era un mezzo piccolo.
Così uno di noi ne ha preso un altro.
Non é stato così facile, perché eravamo già in tre mentre loro erano due.
Invece noi, due con un mezzo e uno con l'altro (ed era Guglielmo, quello che si era avventurato da solo con un mezzo, che fu definito Tell per associazione) insomma si era un po' asimmetrici.
A me stava bene così, io sono un po' irregolare, ma Teresina decise che tutto era storto, non le piaceva niente, e mi piantò nel bel mezzo sul mezzo.
"O.K." dissi allora, perché erano già arrivati gli americani "Adesso va meglio". Riprendiamo il percorso.
Dato che é impossibile riprendere il percorso che é molto presuntuoso e preferisce proseguire da se', andiamo avanti ed alla fine raggiungiamo Raul e Giacomo ognuno col suo mezzo che insieme ne fa uno e scopriamo il segreto della Trinità.
10. COMPENETRAZIONE
L'ho aperto ed erano due; ne ho aperto uno ed eccone altri due.
Sono entrato nel più simpatico, ma non sapevo dove dirigermi, ché le direzioni erano tante, per non dire infinite.
Per questo ho deciso di andare da quella parte.
In effetti ho fatto bene: la vita non é stata proprio facile, ma varia.
Per esempio in quella zona camminavano tutti senza fretta e questo é un gran vantaggio.
Io, i primi tempi, correvo quasi, tanto loro erano lenti; poi ci siamo conosciuti ed ho capito.
Mangiavo talvolta l'uno talvolta l'altro. Certe volte mi mangiavano a me.
Non é sempre stata un'esperienza facile.
Comunque camminando in lungo e in largo mi sono trovato in un'altra direzione.
Per fortuna non mi é toccato scegliere.
Qui mi sono sparso, anche perché soffiava sempre senza tregua un vento portentoso, e ho allargato di gran lunga le mie dimensioni.
Quando ho incontrato lei eravamo molto più rigidi. Non so come é stato, fattostà che ci siamo conosciuti e ci piaceva percorrere il nostro spazio insieme.
Io, lo ripeto, in quel periodo ero un po' sparso, quindi ogni cosa percorreva tempi e spazi immensi prima di poter venire realizzata. Anche per questo la mia affinità con lei risultava piuttosto contraddetta.
Non che, dato che anche lei proveniva da quel vento, fosse così concreta.
Ci volle comunque un bel po' di tempo prima di entrare in sintonia, fin quando, cioè, potemmo finalmente scioglierci e sgocciolare.
Ci fondemmo insieme, trovandoci senza accorgercene, in quest'altro buco, poi tutto entrava in noi e noi in tutto (era un po' come la prima storia).
Quando fummo finalmente tutt'uno ci siamo incontrati nel più antipatico (quello dell'inizio) e abbiamo così capito di essere del tutto fuori.
Non per cattiveria, ma perché ce l'ha chiesto con insistenza, lo abbiamo lanciato lontano, così lontano che ce ne siamo dimenticati completamente.
Era un ricordo.
Oggi il futuro deve ancora arrivare, ed il passato è andato; viviamo felici e questo é l'importante.
Se vuoi anche tu danzar con me, non piangere, amor...
11. SCOORDINATO
Scegliendo dieci cinesi, partii e non tornai più lì.
Si ttu ddici chi l'ammorre hadda finirre, nun so ppoi che cossa vuoia ttu dda mme.
Cùcù. Pereperepé. Cuccuccuruccù.
Questo pensaie, el jorno dello travajo. Tanto me ardeva en cor e tant'anche smaniava lo scorbezzolo mio di fugare lontano quei liti natii, ovo io nacqi.
Allorchè:
1) Nel nulla più solo l'abbiamo riempito (eravamo in numero sufficiente per farlo, ed anche da solo, senza dieci cinesi, avrei saputo cavarmela)
2) Nel buio più nero l'abbiamo acceso, tanto che neanche un frammento di spazio si nascondeva nell'ombra
3) nel caos più confuso l'abbiamo ordinato, anche se alla fine si é dimenticato di allacciarsi le scarpe.
Poi abbiamo tirato a sorte ed é uscito il numero quattro, che ci mancava (mannaggia la malasorte). Il voto segreto ha eletto me.
Io, da quanto, forse, capite, sono poco coordinato, ma non importa, perché sono riuscito lo stesso a raccontare questa vicenda.
Non é un'esperienza di quelle emozionanti che capitano nei safari, nei telefilms polizieschi o in altre situazioni impegnative del genere, ma é pur sempre una storia.
12. BENESSERE
Com'era rotondo quel suono e come scivolava rotondo, mentre io ero là.
Non basta però, tutto era gorgo, tutto era morbido.
Immergendomi nel gioco dei suoni, scorrevo in questo universo fantastico di immagini e colori, senza poter frenare, senza saper capire.
Talvolta scontravo un rumore più pieno e questo esplodeva, ed io con lui, in caroselli di luce, libera o impaurita.
Volare e volare, come cadere e cadere.
Non c'era speranza di carpire o percepire moti: la sorpresa arrivava sempre ad un certo punto, senza preannuncio, ed il contraccolpo era sempre veloce, violento, graffiante.
Tutta rugosa, la mia superficie grattava contro la materia del suono in movimento continuo, producendo vibrazioni e luci e colori che a loro volta riempivano spazi vuoti, schiacciavano, centrifugavano quelli pieni.
Com'era che mi trovassi là, nel pieno della mia formazione, non so proprio come spiegarlo.
Eppure mio padre fu il silenzio e mia madre la tenebra.
Come esprimere tanta luce che mi cantava
dentro, come cantare tanta vita che mi brillava nell'animo...
Eppure era questo suono rotolante che traversava i miei vuoti a creare in me l'essenza, a fremere e a sussultare per il mio corpo, non io (eppure anch'io).
Ho capito, però, che non ha senso costruirsi motivi, perlustrare i perché sterili dell'esistenza.
Forse quest'occupazione può sembrare allettante a quanti, diversamente da me, si sono trovati, loro malgrado, a vivere una vita di patimenti e di orrori.
E' facile comprendere quanto possa risultare di cattivo gusto lo scherzo della vita per costoro: trovarsi in un mondo che li vuole diversi, eppure essere ormai vivi e dover soffrire anche nel tentare di tornare indietro.
Per esempio la Terra, palla così concreta e rigida.... brulicante di esseri, di vita, di morte... come può la Terra non porsi questo rabbioso interrogativo?
Così stupidamente gonfia di pullulante esistenza, come può non soffrire di essere viva?
Che pietà, che compassione... Ed io certo non sono capace di comprendere...
La musica continua, penetrante, rotonda e infinita, perpetua e incostante, mi riempie talmente da non lasciarmi mai altri spazi per le idee... ed io ne partecipo felice, proiettandomi passivamente nell'universo sensuale delle libertà moderate.
Non conosco il Tempo, tanto grave e profondo, generatore e distruttore di vita, inventore delle emozioni come il dolore...o la gioia...
Sono solo presente e rotolo, io, con questa musica che chiamo amore, vivente in me ed io in lei.
A dir la verità non saprei dire quali quantità, quali percentuali, compongano tutto questo, ma non serve, d'altra parte, "sapere" qualcosa.
Amo solamente trapassarle, le sensazioni, fin quando esistono, e poi, quando sono finite, le scordo, come se non fossero mai state.
Ho grosse difficoltà, per questo, a raccontare di momenti precisi o di piccole storie particolari... il Ricordo é figlio del Tempo e questa famiglia non é consona ai nostri luoghi.
Anche ciò che dico e che so é frutto solamente di un casuale scontro con una storia compatibile di vita concreta, la quale erroneamente attraversava la mia musica in tempi immemorabili.
Eppure, per questo, oggi sono differente: da allora la mia esistenza si è scissa in due: il prima e il dopo.
Non che mi serva granché, ma dato che mi trovo a raccontare, almeno ho qualcosa da dire in cui esiste un prima per cominciare ed un dopo con cui, adesso, finisco.
13. PRIGIONIERI
Gorgoglii stridii sciacquettii tonfi ronfi
gonfi di sudore cingolavamo sul selciato, come vecchie ruote pneumatiche.
Non si fermavano mai e a noi toccava seguirli a ruota, come fedeli seguaci
(così risultò poi sulla stampa dei giorni successivi, così sui libri di storia delle nuove generazioni).
Nessuno a chiederci - come va - nessuno a salutarci con la manina dal balcone. Nessun balcone.
Solo deserto.
In continuazione camminavamo sul selciato, con un gran sentimento represso.
Qualcosa, non so, forse catene, ci frenava dal mangiare i sampietrini.
Qualcos'altro, forse le loro armi puntate, ci impediva di dire fino in fondo ciò che pensavamo di quella storia.
Quando siamo arrivati sembrava di essere in un posto qualunque:
lo stesso selciato di prima e un gran vuoto difficilmente colmabile attorno e dentro di noi.
Così ci hanno deposti da un lato e sono corsi a fare merenda, dove non so, forse da Maria Pia che abita nella zona.
Sono spariti all'orizzonte in un baleno, e nel triplo del tempo sono ritornati, grossi almeno il doppio.
Comunque era tutto uno sciacquettare di sillabe, uno scomporsi inorganico, a cui dovevamo senza scampo assistere; e questa forse é stata la storia peggiore che sia capitata a noi, sempre così composti e globali.
Anche il sudore gelatinoso e l'aritmico ciondolare, o anche strisciare (che dico, essere trascinati via) e anche la fame.
A tutto ciò eravamo avvezzi ormai da tempo.
Durante tutta quest'era di patimenti ed atrocità nulla é mai stato il dolore fisico di fronte alla depravazione dello spirito o alla violenza mentale.
Ci toccò assistere a questo e ad altro ancora; molti tra noi soccombevano ed ho visto più volte qualcuno sgonfiarsi ed accasciarsi lentamente al suolo, in un nugolo di polvere, tra fischi en sibili. Sensazioni inenarrabili, spettacoli stravolgenti.
Spesso bucce sgonfie dei più sfortunati (o più fortunati, chissà) venivano ammonticchiate senza rispetto dentro fosse malsane, una sull'altra in una sorta di macabro rituale dell'insolenza. Altre volte incontravamo resti bruciati e maleodoranti sparsi lungo il nostro cammino.
Solo dopo tempi incalcolabili decisero di tornare sui propri passi.
I più ostili di noi erano stati bucati e li abbiamo visti tutti scoppiare come vesciche, in un'agonia allucinante senza avere la possibilità di fare niente. Senza neppure poter ribattere col terrore di seguire velocemente la loro sorte.
La mia fortuna è di essere un individuo senza alcun valore sociale o politico e di avere un carattere radicalmente docile e umile.
Sinceramente neppure questa shoccante esperienza ha provocato nel mio animo impulsi di ribellione, solo una profonda amarezza che mi accompagnerà fino alla morte.
Spesso avrei preferito avere un altro carattere, in altri momenti, vedendo la sorte toccata ai miei compagni, sono stato felice della mia vigliaccheria.
Certo la mia sopravvivenza oggi è alquanto triste, amara e molto solitaria.
Durante la notte mi tornano spesso alla mente le gocce di sudore che cadono sul selciato, ed i rantoli, i gridi, gli stridii, i rumori sordi nella notte, l'orizzonte piatto attorno a noi o le paludi putride in cui stare a mollo per giorni e giorni...
Rivedere dopo tanti anni gli altri sopravvissuti porta a ripercorrere tappe, ad avere bisogno di ricorrenze, a festeggiare la liberazione, a compiangere i morti, senza senso e, d'altra parte, non esiste altra via di scampo, altro filo conduttore della vita, se non la continua presenza incombente di questo passato irremovibile.
14. TEMPI DELLA LEGA
Provate un po' a raccontare a quelli della lega quanto fu faticoso passarci sotto la luce e sentirete come reagiranno.
E' certo che nessuno di loro si sarebbe mai trovato più carico di pesi e di tensione.
Per fare un esempio: noi siamo una nuova generazione e solleviamo circa una trentina di kilowattora a testa, non di più... e non é neppure un fattore energetico, é solo una questione di abitudini che sono mutate.
Tutti loro, ed allora "loro" erano tutti interni alla lega, (non si concepiva, in effetti, diversamente), invece arrivavano a 6.000 megawatt.
C'é da vergognarsi.
Però é anche vero un fatto: non lo facevano nei loro interessi.
Io, o tutti noi giovani, non passeremmo mai da qui a lì senza fari o sott'acqua.
E' molto faticoso e pericoloso per entrambi:
noi rischieremmo il sovraccarico (e, al limite, il cortocircuito) e i kilowattora la dispersione.
Non potremmo mai permettercelo.
Per loro non c'era ostacolo che tenesse, ma in verità ci erano costretti.
Questo fatto di essere tutti, ma proprio tutti, dentro la lega, ad esempio, sta a dimostrare da solo che qualcosa non andava bene.
Non é possibile nascere di un colore, di una qualsivoglia forma irregolare, e lasciarsi fondere in un unico materiale sempre dello stesso colore (per anni luce é stato così) - o meglio, la lega é sempre stata priva di un qualche colore e se ne avesse avuto uno si sarebbe chiamato "amorfo" - e fra l'altro si trattava certamente di roba pesante: non era mica facile sopportarsi a vicenda campando a quel modo...
Per cosa tutto ciò? Perché si dimostrasse a non so bene chi di poter raggiungere i 6.000 megawatt, quando non serviva a nessuno andarli a trovare e gli stessi megawatt (o kilowattora che fossero) stavano bene a casa loro senza bisogno di inutili spostamenti ( e di consequenti dispersioni per disoccupazione).
Siamo giunti ai nostri tempi in maniera contraddittoria: c'é molta tensione in giro, nonché molta carica, specialmente tra noi giovani atomi dispersi nell'atmosfera che ci poniamo il problema di essere felici oggi senza paura del futuro, ma con i vecchi sempre tesi nelle loro maglie metalliche a captare quanto più possono, per accumulare chissà quali energie, dimenticando, fra l'altro, che il patrimonio energetico di ciascuno non é trasmettibile, a lungo termine.
Per quanto mi riguarda ho messo su un gruppo elettrogeno: si chiama "Fughe di Gas" e mi diverto così, fra scoppi e scintille.
Vaglielo un po' a spiegare ai vecchi che non si tratta di un nucleo esplosivo, ma solo di un esperimento di pirotecnica!
15. ARIA
Correvo veloce attraverso le spesse pareti diroccate.
Un viaggio inconsueto per me che da poco conoscevo la materia.
La roccia col suo granuloso arroccarsi sembra volerti sempre scacciare da sé per conservare preziosamente tutto ciò che le appartiene. E' un po' come il gatto, sempre riservata. Solo frane imprevedibili, talvolta.
Non é come il mare: tumultuoso, docile o arrogante, fragile, irrequieto...
Troppo simile al mare, io, sono figlia dell'aria. L'inconsistenza é la mia identità.
Come potevo conoscere, o intuire, allora, la pietra, il marmo, le terre argillose o i sassi, quando ancora così giovane non avevo che il vento e me stessa come esempio... Quando ancora mio padre non mi aveva insegnato a viaggiare, a considerare gli spazi circostanti, a conquistare la terra e tutto per me era atmosfera, soffici luci, tenebre o fulmini e saette?...al massimo conoscevo la pioggia, poi il mare, e sono scesa.
Timorosa, molto insicura, sono scesa ed ho visto i campi verdi o gialli, le terre ferite dai grossi metalli lucenti, rosse, il sangue.
Tante tante bestie fatte di sangue che vivevano di natura o mangiandosi reciprocamente per non svanire, consumati, nella terra dove, a quel punto, li avrebbe mangiati la natura fatta di verde linfa, anche se comunque, consunti, sempre alla terra li ho visti tornare. Il loro sangue, rosso, quando bucavi quelle sacche che lo contenevano, ma poi marrone, e ancora terra.
Incredibile, stupefacente a dirsi, come questa terra, questa materia organica, potesse scacciare da sé e poi raccogliere in continuazione tante diversità in movimento...non solo, ma anche la stessa acqua, quella che da noi si addensava vaporosa e calda in nubi polverose per poi disperdersi fredda in elettricità e pioggia, assieme alla terra compiva connubi tremendi:
Capace, cadendo, di far spuntare germogli, di creare laghi dov'era deserto, o di abbattere foreste, se violenta, lì proprio dove le aveva fatte nascere.
Talvolta spariva e non si sapeva perché; talvolta saturava il suolo e riusciva in gran fretta, potente ed esuberante, correndo sulla terra sempre più vittoriosa, fin quando non raggiungeva il mare...
A quei tempi ogni cosa era magica. Non c'era niente che non fosse da vedere, da conoscere, da sapere, ma quando mi trovai di fronte alla montagna, inquietante e severa, capii che ero appena alla partenza.
Non mi è bastata la curiosità e così ho conosciuto anche il sentimento.
La curiosità é stata nel cercare ciò che non conoscevo e poi scoprire come fosse conoscibile: come ogni novità potesse diventare me ed io lei e così via.
Dopodiché incontrai la montagna il cui enigma mi sconvolse e trasformò il gioco in qualcosa di diverso, nuovo, che scontrava contro qualcosa di insormontabile ed inconcepibile.
Dapprima mi spaventai: presa dalla mia forza fino ad allora incontrastata, ero precipitata contro questa massa, ma, totalmente sconosciuta, la Materia, mi aspettavo che, come le nubi o le piante o i terreni erbosi o i fiumi o il mare, questa si modellasse al mio passaggio, si aprisse, si chinasse, fuggisse, si sgretolasse o altro...
Al contrario, io, forza di infiniti chilometri orari, mi disintegrai nell'atmosfera perché avevo sbattuto contro il Muro, contro la roccia.
Frastornata, sgomenta dalla nuova sensazione, volli capire cosa mi trovavo di fronte, perché non sapevo che cosa volesse dire la parola ostacolo.
Giravo attorno alla roccia e capivo che quelle tinte grigie, neutre, talvolta cristalline e limpide, quelle solide masse, erano l'unica entità da conoscere che avessi mai incontrato sul mio cammino.
Per questo, per anni e poi decenni, e per secoli... per ere ed ere, senza tregua, ho cercato la sua essenza.
E' potente la montagna, presente, unica indiscutibile, indiscussa.
Rifugio certo di centinaia di specie animali, di migliaia di vegetali...loro rovina...
Ricca di odori e di climi, fin là sulla cima, dove, quando splende il sole, i ghiacci gelidi brillano più di questo che li illumina, pur restando gelati e lontani...
Accarezzavo le sue solide fiancate, fischiando tra gli abeti folti che si affollavano alle sue pendici, e dopo di lei una e poi un'altra e poi tutte le rocce della terra. Scoprendo tutti i colori.
Non mi riusciva di penetrarla mai, anche se ora so che non é impossibile.
La roccia ha i suoi segreti, la sua anima nascosta, i suoi punti deboli, i suoi crepacci, le voragini, le esplosioni di fuoco dei vulcani, valanghe gelate per i boschi durante gli inverni...
Scoprii finalmente la grotta, la galleria, e da lì mi lanciai in un gioco esaltante, violento.
L'unico gioco che io conosca: la conquista.
Come resistere alla vendetta dopo lo sgomento
iniziale, quello sconvolgimento sgradevole mai provato fino ad allora e che volevo dimenticare.
Potevo solo dimostrare che non era stato altro che un piccolo incidente.
Non era un giogo che mi avrebbe piegato, bensì la lieve disattenzione di un'anima giovane e inesperta.
Così, con tutto l'entusiasmo che avevo, mi tuffai urlando nelle grotte, attraversai i crepacci, seguii i percorsi delle sorgenti, raggiunsi la lava ribollente dei vulcani. Senza tregua, senza interrogarmi sul futuro di ciò che mi circondava.
Senza morale, senza affetto, senza alcun sentimento tranne il desiderio di prevalere.
E' stato il gioco della mia vita fino ad oggi che ancora mi diverto ad attaccare la montagna.
Oggi, che l'affilatura delle sue guglie non è più che un ricordo a causa della mia continua e logorante frequenza.
Col tempo ho limato le vette, arrotondato le cime. In alcune zone più fragili sono riuscita a distruggerla, a forza di insistere, monotona, attorno alle sue forme.
Ho modellato sculture, nuove grotte e dolci colline.
E' infinito questo gioco, é il più stimolante, perché la montagna é tenace ed io anche.
Chissà, quando l'universo avrà compiuto i suoi cicli infiniti, può darsi che della montagna non resterà più altro che ciottoli bagnati dal mare. E allora sarà a lui che dovrò tornare, come all'infanzia, giocando a spruzzare la schiuma e a far correre le onde veloci contro la riva.
16. RITORNO
Scendi - dalle infinite gradinate di pietra - alte - rovinose.
In fondo il mare - e poi la sabbia - gialla sabbia infinita - e le montagne all'orizzonte - con le vette trasparenti di cristalli d'ambra - incandescenti al tramontare di quell'immenso sole rosso - laggiù ai confini della terra.
I gradini, massicci e ripidi, accolgono nei loro anfratti tutta la fauna primaverile delle rocce: lucertole e ramarri, serpi e salamandre sgusciano via nell'oblio dei cunicoli freschi al tuo incedere con passo pesante - quando avrebbero desiderato ardentemente lasciarsi cullare indisturbati dalla brezza serale, su quelle pietre roventi, nell'ultimo sole.
E intanto tu scendi - a sinistra precipita il mare, e alla tua destra la parete rocciosa, paterna e protettiva, si eleva per centinaia di metri, con le sue venature multicolori e la sua statura austera - incombente.
La abbandoni, adesso, ed é incespicoso il cammino: sono piccoli i tuoi piedi, nudi e graffiati. Sono sensibili le loro piante quando, con un sobbalzo goffo, le appoggi distrattamente sul gradino inferiore, facendole raggiungere l'una all'altra con un po' di incertezza e paura.
E' ripido il burrone, di sotto.
Laggiù, dove il sole morente tinge l'acqua d'oro e di rame.
Laggiù, dove il nulla si chiama tumulto.
Nel fondo della più totale incertezza, dove le onde possenti fremono nel loro rantolio sconfortante e cercano di trascinarti a loro per poter raccontare il loro angosciante continuo dolore, a te, così lontana, figlia del Sole.
Così tu scendi: sai di chiamarla Morte questa ricerca angosciosa, questa spinta al ritorno. ne riconosci l'odore: cosa importa?
E' così bello, con i gabbiani e le rondini, rumorosi e stridenti nel cielo incandescente, abbandonare l'assoluto, il limbo delle altitudini, delle vette cristalline e impeccabili, della roccia virile, per rispondere al fragile, mesto, caldo e crudele richiamo del Mare.
E la Terra si confonde in questa commozione, ti osserva, muta, scendere dalle sue gradinate imperiali, degne di un imperatore gigante, figlio di altre genti nativo di altri paesi, piuttosto che di una regina bambina dalla forma di arbusto secco non sopravvissuto all'inverno, così compreso nei suoi aridi rami e così stentato, da non riuscire a dischiudere le proprie gemme di primavera.
Sembra ancora inverno, questa sera. E' vero, l'aria é tiepida e con i gabbiani così bianchi urlano anche le nere rondini, e questo sole che tramonta é più grande, più vicino, più caldo.
Ma il tuo corpo é ancora intirizzito e rigido. Trema alla brezza e si comprime addosso le morbide vesti regali che lo avvolgono, ultimo colore nel tuo piccolo impero di solitudine.
Morbidi e leggeri, i tuoi abiti trascinano dietro ciottoli e foglie morte, strusciando sulle gradinate di pietra.
Com'é distante questo cupo mare, da quassù; ma il suo lamento é troppo infelice per non turbare la nostra quiete montana.
E non si può capire cosa cerca quest'ansia universale, insostenibile e continua. La sua monotonia non si può troncare provando a rispondere da quassù. La tua voce é troppo flebile per essere udita dall'abisso.
Il tuo corpo di ramo secco, troppo esile per essere notato.
Conviene scendere a valle, andargli incontro, a questo dolore, per provare a capirlo e a quietarlo.
Sarà il sacrificio di un re che potrà calmare i venti, o il mare, o permettere la costruzione di una fortezza? sarà l'immolazione del cuore di un bambino che lascerà al mondo la pace eterna?
Sarà, forse, ma questa angoscia é troppo grande perché non trabocchi il cuore nel bisogno di fermarla.
Così, scendi, scendi, e ancora scendi.
Calma, silenziosa, austera, come si addice alla regina bambina, ancora incorrotta dalla coscienza del proprio potere, educata, piuttosto, alla gravità del ruolo che peserà su di lei fino alla morte.
Così pensi che sarà la sabbia, che già non brilla più di colori dorati, regno di milioni di pietre preziose e vetri colorati e gusci di conchiglie, sarà la sabbia, che ora intravedi umida e fredda, così, da lontano, già bruna nel crepuscolo, che, quando la raggiungerai, saprà introdurti alla storia di questa morte infinita.
Lei sì che saprà spiegarti, perché é da sempre legata a questo mare, di questo mare é figlia e della vita é madre: lei é la Terra, figlia anche della roccia, della ripida montagna che, imperiosa, ti accingi ad abbandonare, scendendo senza sosta le innumerevoli gradinate che ti accompagneranno al mare.
Sarà soltanto a questo punto, quando la notte fonda cancella ogni idea, ogni universo possibile, proiettandoti nelle sole, piccole, chiare lanterne di salvezza nascoste in ogni stella, solo ora, che ogni piccola risposta sembra sciogliersi in questo buio, totale buio di un cielo senza luna, ora che il mare non é più distesa, ma sciabordio continuo accanto a te, e le sue onde sbattono accanto ai tuoi piedi e non vedi che guizzi argentati nel nulla, quando la notte é il niente e le stelle sono immagini del tuo desiderio, del tuo bisogno di un faro, è proprio ora: la tua veste striscia inumidita e si appesantisce, ricca di sabbia bagnata. Le tue gambe non scendono più. I tuoi piedi non si graffiano più sulle rocce appuntite, ma affondano infreddoliti nella morbida spiaggia e lasciano che questa racconti la storia al tuo corpo e alla mente, mentre le onde già carpiscono avidamente le tue caviglie, dichiarando con passione e veemenza la necessità che hanno del tuo gracile corpo e tu ti lasci condurre in questo gioco, in questa pressante e crudele richiesta d'amore.
Attorno a te non vedi che buio. I tuoi sensi sono saturi dell'odore di sabbia, e la salsedine nel vento, così aspra, alliscia e intirizzisce il tuo corpo.
Non c'é motivo, ma ti lasci cadere docilmente in questa trappola e vuoi credere ancora fino in fondo di poter dare un finale a questa storia, che questa morte perenne potrà finalmente cessare se tu ti darai, senza esitazione, all'incessante incalzare del nulla, a questo sensuale, affettuoso, bagnato ed avvinghiante mare.
E' solo in questo istante, in cui i tuoi capelli pallidi, resi pesanti dalla schiuma soffice delle onde, si trascinano con le tue vesti in balia delle correnti gelate della notte, che riesci a sentire, già preda del sussulto e del ritmico sbattere dell'oceano, riesci a sentire dal mare il significato della sua epica voce lamentosa e delirante.
Ne senti il suono preciso di parole d'amore eterno e comprendi che la sua pena é universale.
Ormai é sorto il sole. Alto, dopo l'oro dell'alba, la giornata canta potente nel suo quieto scorrere di nuvole bianche all'orizzonte.
E' placido il mare questa mattina, tremendamente calmo. Rompono il silenzio solo le grida dei gabbiani.
Sulle immense gradinate che i ciclopi scolpirono sui fianchi della montagna, serene, le lucertole e le serpi di primavera, si lasciano amare da un sole raggiante.
17. LIQUIDO
è acqua. lo so. fammelo capire. è liquida. fammi sentire. è fredda. fammi sentire. è dolce. fammi sentire. è bagnata. fammi sentire.
sono rospi, camminano tutt'attorno, anzi, non proprio, non proprio rospi, piuttosto invertebrati ma saltano.
ti sono intorno e poi sopra non te ne accorgi? ora raggiungono anche me.
ne ho mangiato uno. ha un sapore dolce sa di acqua é freddo bagnato gelatinoso.
cadono dei sassi anzi li calpestiamo.
ci siamo capovolti credo ma più che sassi si tratta di vetro.
è freddo ghiacciato, forse é la stessa acqua.
vuoi dire che si tratta di ghiaccio puro.
come faccio a dire se sia puro o meno? no si tratta di sassi sono duri e taglienti.
sì ti si é staccata una parte.
anche a te anzi ecco che già ne manca un'altra.
no sono sempre io e tu parli con una parte che non é più me.
sono sempre rovesciato ma ora anche i vetri. nell'acqua le cose non si vedono sempre bene.
sì il liquido dopo un po' diventa melma. piccoli ammassi gelatinosi eccoli addosso è difficile proseguire.
no non è la gelatina...ma é la sezione mia...
fai dello spirito
no
giusto anch'io ho vari distaccamenti trasparenti e mollicci
ci stiamo compenetrando
é meno interessante di quanto si possa pensare
piuttosto soffocante
d'altra parte io non ci sto più
piove
sono io che mi rigiro
sì non me ne ero reso conto
giusto sto cadendo nell'acqua
ma é tutto acqua
vedo i tuoi occhi sempre azzurri ora non li vedo più anzi sì ma come sono diventati enormi
lo disse anche cappuccetto al lupo che poi se la mangiò
ah sì? era buona almeno?
piuttosto liquida
18. X
Prosegue il tracciato. Tracciato millimetrato del quale perdiamo lentamente il conto.
Importante a quest'ora é però proseguire e basta nel tracciare i millimetri del percorso.
Ogni millimetro talmente esagerato é comunque una tale fatica da giustificare la totale esistenza di uno di noi.
Che dire quindi del riuscire a tracciare più misure? Oppure del riuscire a colorarle?...niente.
D'altra parte é pure vero che tracciate tutte le linee precedenti si spiega dinnanzi agli occhi la moltitudine informe degli spazi innumerevoli ancora tutti da registrare e sui quali ancora poter intervenire.
Una grande fatica per le nostre moltitudini non sempre coronata da soddisfacenti gratificazioni per i nostri sforzi.
19. ORIZZONTI
Nella più fragrante ignoranza si beavano e pascevano mentre a me toccava rincorrere il rapido e cercare di raggiungerlo per poi saltarci sopra.
Le ruote a quei tempi erano ben oliate.
Le rotaie lucenti. Gli sguardi fieri.
Non era poi così difficile correre e saltare e poi di nuovo correre e saltare. Ogni volta di nuovo e ancora sempre nuovi orizzonti.
Amavo non meno di oggi mangiare gli orizzonti.
Non a tutti piacciono anzi mi considerano una cattiva forchetta.
Loro piuttosto la terra o l'aria o altre cose ritenute più appetitose e tra l'altro più nutrienti.
Anch'io ne ho sempre mangiate di cose e situazioni.
Poi rischiavo l'indigestione, questo tempo fa, e mi consigliò gli orizzonti:
era uno straniero veniva da fuori e passava dentro proprio per caso.
Un gran simpatico comunque.
I rapidi sfrecciavano al sole ed io appeso a lui velocemente senza quasi accorgermene... una bella mangiata da sentirsi sazi e felici. Lontano - perché si finisce sempre molto lontano da tutto ciò che uno normalmente sa o ha.
E così sempre in qualche direzione da qualche parte sempre con lo sguardo fiero le rotaie lucenti e l'allegria.
Poi alla fine non é detto che resti un bel niente volendo solo il ricordo o la sensazione o l'acquolina per cui nuove tentazioni e fantasie.
Anche se col tempo un po' di ossido e polvere la stanchezza e la pigrizia la mancanza di cure ci si scorda un giorno di mettersi l'olio ed ecco fatto:
Rosalinda si é fermata (era un po' da ridere) e con lei ruotavamo molto spesso.
Anche in circolo anche in cerchi concentrici o a zig zag insomma si andava sempre.
Così a forza di girarle intorno per non lasciarla sola i rapidi neppure li vedevo.
Non mi interessavano più diciamo che me li ero quasi dimenticati.
Rosalinda era così simpatica all'inizio che valeva la pena.
20. VOLTEGGI
Tra le storie infinite puoi trovare questo costante scorrimento in cui ho passato i migliori anni della mia giovinezza.
L'aria soffia sempre e sempre calda nelle nostre terre e i giorni sono lunghi interminabili e si confondono facilmente con le sere e le notti: nulla cambia tra il giorno e la notte a parte l'arrivo o la partenza della luce o del buio.
Attorno sempre lo stesso movimento turbinoso delle morbide masse volanti che con piacere o con pigrizia si distendono e si contraggono per la pianura accaldata e stanca.
Io da sempre non ho potuto che amare questa agiatezza delicata e rilassante a cui tutte le nostre genti sanno di non dover mai rinunciare tanto quanto sanno di non poter mai cambiare.
Ma perchè cambiare? In realtà non c'é alcuna necessità di andarsene o di cambiare. Nessuna possibilità di soffrire né di desiderare la sofferenza in questa pianura sterminata ricca di profumi e di vento. Di giorno splende una luce compatta azzurra e tersa, fresca come il bucato. Tutto splende nei giorni e l'aria é densa dei nostri perenni rincorrerci dei veli del soffiare dei venti i fischi dell'aria nelle nostre fessure o tra le sottili membrane che vibrano attorno.
Il canto che ne scaturisce é universale e potente é proprio un canto del giorno ricco di luce e odori intensi porta al desiderio alla corsa allo splendere dei tessuti e al luccichio delle immagini veloci e confuse del giorno.
Poi scende la sera con leggerezza ci trova nello stesso turbinio in cui ci lascia al mattino ma noi non la sentiamo addosso con abitudine perché tutto é un continuo ripetersi ma anche rinnovarsi e così ogni sera é nuova e vera ogni giorno nuovo e vero e noi senza fatica anzi nel completo rilassamento andiamo e torniamo scendiamo e saliamo ancora anche nel crepuscolo caldo e morbido e il vento soffia implacabile e attorno tutto canta dolcemente la nostra allegria e la nostra assenza: noi che siamo attorno ma che non siamo.
21. DALL'INTERNO
Eccoci di buon appetito. Eccoci proprio sul limitare della fame.
Che dice la bocca dello stomaco?
Non si sente niente.
Dopo un po', volendo, si sente forte, sempre più forte, la fame.
Buon appetito. Sempre più buono.
Buon appetito. Sempre più buono.
salve e salvie. pranzo e pranzie manziazie e mangiatizi i salumi di tirenzio cuccuruccuccù pallomita a pallomitottola cuccuccuccuicucuciuzfuciufciufciufciufciufffffffffffffffffffffffffff
cccccciccciiiiaaaaaaaaaaaaaa!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
rrrrriiiiccciiiiiiccccccccccccccciiiiiiiiiiiiaaaaaaaaaaaa!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
22. CATASTROFI
Come arrivare giù in fondo alla scarpata crollare crollare ancora sperare di avercela fatta finalmente nonostante il volo e lo strapiombo nonostante il vuoto e la bufera e le rocce taglienti i rami secchi le radici che non reggono la terra che frana vedere la terra sperando che sia giunta finalmente la fine di questa agonia spaventosa e vedersi aprire sotto un altro crepaccio capire che era solo un istante parte della caduta infinita e vedersi prospettare un futuro ancora rovinoso e violento ancora vuoto terreno che frana sotto i piedi solitudine nessun aiuto continuare a crollare crollare ancora tutti i palazzi i grattacieli i castelli le regge a precipitare addosso e ancora finire giù senza fine e tutto addosso non avere neanche il tempo per farla finita ormai non più mancanza di tempo infinita povertà di tutto mancanza di tutto e nessuno con te tutto addosso proseguire a rovinarsi sfracellarsi senza potersi fermare una radice a cui ci si aggrappa quell'istante blasfemo in cui sperare di fermare il respiro di potersi regalare un pensiero o anche solo il desiderio di togliersi finalmente la vita ma questa radice si spezza anche questa e il rotolare é ancora più grave più crudele adesso che non puoi neppure fare quello che hai deciso troppi ricordi per farla finita per non sperare di farcela troppi affetti per non sperare di farcela troppo troppo di tutto che non c'é mai e forse più non ci sarà per non sperare di farcela non finirà mai però solo sassi brandelli di carne scia di sangue su questo percorso del destino ad altri belle strade autostrade percorribili in automobili fuori serie ultimo modello o aereoplani per volare lontano o sentieri nel bosco pieni di fiori a te é destinato questo sentiero che scende e che scende e rotolare e immagini miste e confuse e solitudine e roccia e spine e pezzi del corpo che si perdono si sgretolano i capelli si strappano le dita monche i piedi distrutti gambe maciullate poi verrà la fine mentre ancora si precipita verrà la fine da sola se sarà generosa saprà finalmente venire conscia del fatto che non ho tempo non ho mani né testa per chiamarla verrà.
Il secondo tratto del percorso é in salita e non si vedeva l'ora di smetterla di cadere e non riuscire più a guardare a pensare mentre invece al fondo si é prima o poi arrivati si é visto questo suolo fangoso e putrido questo fondo si é visto oltre é difficile poter cadere alla fine non si cade più ma si guada per qualche tratto quando é appena possibile si ritenta la risalita non che fosse la prima volta si é tentato molte altre volte la risalita si tenta per sempre é un continuo tentarsi e risalirsi piuttosto la caduta é sempre peggiore più difficile sempre più dura le ossa tutte rotte la pelle saltata via le croste i tagli il sangue sempre aggiunto al vecchio la salita é invece sempre uguale e il coraggio o la forza di disperazione o l'istinto di sopravvivenza o il desiderio mistico di elevarsi a dio tutto ciò porta alla stessa forza lo stesso coraggio non importa più il sangue la carne maciullata le braccia rotte i lividi le nausee confusione tutto tende verso il cielo non si pensa più che fino ad oggi non c'é stata risalita che non fosse seguita da una caduta sempre più dolorosa eccetera si pensa solo a dover risalire testardamente e ottusamente si desidera salire arrampicarsi assaggiare la roccia calda della montagna mangiare i sassi aggrapparsi tenersi riuscire a tenersi saldi piede su piede mano su mano gradino gradino piano piano il proprio corpo i propri muscoli e il proprio cuore valgono qualcosa valgono la capacità di muoversi finalmente come se non fosse mai successo camminare e salire abbracciare la roccia e gustare i sassi di tanto in tanto tiepidi al sole attorno il sole o la pioggia ma tutto basta finirla con questo cadere ruzzolare continuo nel corpo inutile e dolente nel proprio essere impotenti nella propria mancanza
Il secondo tratto é in salita dopo qualche tempo le mani sono doloranti ma la vista gode di paesaggi lontani e profondi fissi in un orizzonte deciso e poi sfumato ma che é lì ad esistere nel suo essere guardato e le mani allora riprendono a salire avidamente e i polmoni respirano aria sempre più tersa anche se piove il corpo é compatta esistenza in confronto all'inerzia della montagna e esserci esserci é quello che succede perché ogni muscolo risponde ogni senso percepisce ogni materia o colore sono gusto e tatto e la storia é concreta la propria storia dei passi che si susseguono e che si possono mettere uno sull'altro o come si vuole e piace ogni volta averli messi bene e vedere la propria ombra seguire e vedere le ombre delle nuvole sul proprio corpo e nella testa il cielo é terso e si sale sale sempre su queste rocce e le radici le soppesiamo prima che ci reggano e poi ci reggono a chi lo spieghi poi quando perché succede sempre che non reggono più a chi lo spieghi che ricomincia la nuova caduta sempre peggiore ti accorgi di tutta la nuova malattia del corpo ci si sente morti e si cade già morti senza poter nuovamente riuscire a morire perché la caduta che é morte non dà la morte e la salita è vita e non desideri più di morire non lo desideri affatto sei felice di vivere quando cadi non lo sei più non sei più niente anche soffrire é privo di parole é una x un punto interrogativo é uno scarabocchio incomprensibile il dolore in questa morte continua non ha più senso neppure sentirsi conficcare le pietre nei fianchi nello stomaco sbattere la nuca sulle rocce appuntite o spaccarsi i denti non lo si sa più niente é più esistenza tutto é solo aspettare che finisca che venga la fine la morte la clemenza il fango l'acqua la chance della risalita l'ultima possibilità il nuovo salvagente l'elicottero tutto é solo attesa.
23. STORIA D'AMORE
E l'angelo della morte scese.
Si chiamava Elisabetta: dio in sé. Gli occhi erano chiari.
Si posarono sui suoi ed i suoi videro quelli di Elisabetta che non sapeva di essere l'angelo della morte.
Erano belli gli occhi. Erano anche dolci. Chiari e intensi. Luminosi, ma imperscrutabili.
Erano loro, al di fuori dell'angelo, a dichiarare la morte a quegli altri occhi più stanchi, più lontani.
L'angelo guardava e non era il primo sguardo che incrociava nel suo cammino.
Altri già prima aveva sentito chiamare mestamente o urlare il suo nome.
Per costoro scendeva e appoggiava il suo capo su quel cuore afflitto o prendeva le mani del moribondo tra le sue o sussurrava parole qualsiasi per distrarlo da quello strazio dell'anima.
Il malato provava allora una nuova leggerezza, si lasciava andare con docilità e si addormentava.
In quel momento l'angelo silenziosamente si allontanava. Un ultimo sguardo di commiato e nuovamente in volo nel suo spazio, mentre alle sue spalle quel piccolo infelice sprofondava nell'oblio più completo raggiungendo l'insperato nulla.
Riprendeva il suo ritorno alla terra dopo la parabola del figliol prodigo che è la vita.
Anche questa volta l'angelo scese pietoso ascoltando le suppliche di chi lo reclamava. Lo guardò ed egli non lo riconobbe: si stupì soltanto di trovarsi di fronte quei due occhi tanto intensi, quell'amore.
Si amarono per questo: l'uomo non si accorgeva dell'angelo e l'angelo non sapeva di compiere un dovere. Sapeva solo, felice, di aver dato amore, di aver donato un pezzetto del suo cuore infinito. Sapeva solo di star regalando tuttodi se' in quell'estasi e di rispondere ad una voce triste e lamentosa, ad un pianto sommesso che implorava il suo nome.
L'angelo rispondeva con affetto a quelle insistenti suppliche, non sapeva fare diversamente:
non poteva far altro che cercar di dare e salvare e amare.
Questa voltà fu lo sguardo che incontrò a spiegare che non sarebbe stato tutto così semplice.
Si lasciarono così andare nell'eternità ed Elisabetta, l'angelo, ancora oggi é lì che dà, nell'eternità a quel cuore prezioso che continua a battere per lui, a quegli occhi che ancora fissano, a quella bocca che continua a sussurrare parole.
Tutti e due, uomo e angelo, perduti insieme in fondo all'eternità.
24. PIOVE
Vennero i giorni delle grandi piogge.
Qualcuno li chiamò i giorni delle grandi lagrime - e tutto il creato si lamentava della distruzione, della crudeltà, della sopraffazione, della violenza.
Tutto il mondo piangeva. Piangeva sempre e poi più spesso a raffiche. Attimi di tregua talvolta.
I fiori, tristi, reclinavano la corolla in segno di disperazione. Gli uccelli non cantavano quasi più. I cani ululavano.
Le genti si ammalavano e si ammalavano di tutte le malattie e soffrivano nel loro cuore di tutte le violenze subite e delle torture.
Niente, niente poteva colmare questa sofferenza dilagante. Questo vuoto dell'animo.
Siamo qui - dispersi - uno accanto all'altro senza vederci - ogni tanto ci tocchiamo e non lo sappiamo neppure.
Non riconosciamo più neppure le nostre stesse membra - siamo qui - disperati - e tutto l'universo preso dalla sua sofferenza ci abbandona.
Continuiamo a costruirci un'armatura e poi a costruirci uno scudo e poi una spada e poi una fortezza e poi un fossato e poi un esercito e poi cerchiamo di capire chi potrebbe essere questo nemico.
25. NODI PALI POLI
Tirata agli antipodi della terra.
Io - stesa sopra me stessa - legata - la mia elasticità - ai pali ai poli.
Niente di che oltre al grattare delle montagne sulla schiena al punto dell'equatore e l'umidità in cui restare a lessarmi , tra le acque salate dei mari.
I nodi ai poli e la tensione all'equatore: un gran da fare senza fare niente.
Mi piacerebbe fare un giretto, ma non ci riesco mai - neppure su me stessa.
Finché non arrivano i picchi - non sono molti ma - tutti insieme - si mettono all'opera in un punto qualunque - becchettando qua e allentano la mia tensione e sbrindellano l'elastico.
I pezzi saltano via che è una meraviglia fino a che, bene o male, non salta tutto rimanendo in due pezzi annodati ai pali dei poli.
Io sono al polo nord e non so che fare - come prima - tranne che sono talvolta occupata con degli iceberg in movimento e smottamenti dei ghiacci.
Del freddo me ne faccio una ragione.
La parte del sud è ormai solo un ricordo storico e - così lontana - non posso proprio immaginare cosa stia facendo.
Credo dica e faccia le stesse cose che faccio io.
O forse sono io al sud?
26. KONCERT
Siamo circondati - mi dicono - mi faccio largo tra la folla - a vederli sembrano terrificanti - tutti neri lucidi - gli abiti - capelli deturpati dalle falciatrici elettriche e dagli acidi - volti bucherellati tra i pendenti e infilzati da lame di metallo - ossicini.
Molto più alti - la maggior parte - di quanto non possa pensarmi io - pesanti nei loro grandi scarponi neri - non indossati - come tutto quest'abbigliamento esagerato - per sopperire alle incapacità di un fisico ma per accentuarle dato che il caldo emanato dalla calca il fumo e il movimento ondulatorio della massa disorganica tutto dovrebbero suggerire tranne l'uso di abiti così pesanti e ingombranti.
Larghi come armadi - tutti i sessi del mondo - incombono sullo spazio uno contro l'altro scambiandosi energici spintoni e gomitate senza risentimento - e anche calci .
Su di un palco - tra fumose funeree luci intermittenti - fumosamente incazzati - provocatori di suoni orripilanti generano aborti di grida nella rabbia più cieca e il più puro rumore assordante che attraverso immensi altoparlanti sa distruggere ogni residuo di sensibilità insita nell'individuo.
Tutto intorno questa imponente civiltà violenta diretta e cruda a suggestionarmi - a considerarmi fuori posto - piccolo alieno - nonostante il mio cuore - per quanto di fragili apparenze - covi odio e rancore e sete di vendetta e sangue.
Al contrario tutt'intorno sono molto bravi a cantare la rabbia e a ballarla.
Sono qui - nel campo dei pirati - dei farabutti - e vorrei imparare ad esternare il mio odio nel modo più tagliente possibile - sono qui tra i massacratori delle genti che urlando si sbattono e si strappano le vesti di dosso - sudore e alcool sono i liquidi - vapore di respiri accaldati e materia fatta di corpi di carne e sangue e pelli nere e lucenti argenti lunari.
Messaggi sanguigni - virili - marziani - ritmi di guerra mi accendono.
Sono felice - sprofondando - di trovare linguaggi adatti al mio odio ancestrale - alla mia atavica castrazione - alla mia sete di vendetta.
Tribù di nuovi barbari orrendi sfregiati e virili sono le truppe a cui allearmi per seminare distruzione e morte.
Sentono questo le mie viscere più contorte - i miei intestini - le mie vene gonfie.
Sentono questo avidamente - esultando.
Che delusione quando - ad un certo punto - si riaccendono le luci e la folla che sembrava imbestialita di colpo rinsavisce - ognuno smette la sua guerra personale - non si agitano più e - in linguaggi più che riconoscibili dagli accenti corretti e in buona grammatica li sento tutti intavolare asettici discorsi come l'università di domani - la festa della zia - l'acquisto della maglietta - i capelli dal parrucchiere - l'incoscienza di tuo fratello - la pigrizia dell'amica sua.
Anche la banda del rumore dietro il palco eccola là dietro le quinte alle prese con il manager preoccupato per la cena da consumare subito e pieni di sorrisi chiacchierano adesso di questa città - della vista panoramica - delle ragazze - dandosi salutari pacche sulla schiena degne dei più gratificati tennisti - e con quelle che li vanno a salutare con occhi degni della Bella Addormentata eccoli instaurare graziosi rapporti amichevoli fatti di sguardi maliziosi risatine e long drinks.
Uscito nella notte mi premunisco del materiale esplosivo adeguato per fare esplodere tutto il locale con quella stupida gente dentro. Ah Ah..
27. POCO DI BUONO
Le orecchie tirate tirate indietro gli occhi si allungano si divaricano si assottigliano il naso si schiaccia si incurva si allarga le labbra si appiattiscono la bocca sia allarga in una sorta di ghigno beffardo - con questo sguardo - con questa faccia - guardo il mondo
Con una faccia tirata e avvolta nella calza del rapinatore.
Con la mia faccia.
McBett®1991